Faccio mie e cerco di dar loro diffusione queste riflessioni di Mario Riccio, medico di Piergiorgio Welby, sulla possibilità di imporre ai malati la nutrizione artificiale.

E’ ripresa da alcuni mesi la discussione alla Commissione Affari Sociali della Camera per una proposta di legge sul fine vita. Fra gli aspetti dominanti del dibattito (ri)emerge la questione della nutrizione artificiale, già argomento dominante ai tempi della vicenda Englaro.

Ancora oggi, come nel 2009,  si ripropone l’annosa questione linguistica-semantica della distinzione tra cura e terapia. Il fronte conservatore-confessionale è già ripartito all’attacco per sostenere che la terapia nutrizionale in quanto cura ordinaria della persona – paragonabile pertanto all’igiene personale, al taglio dei capelli o della barba – non sarebbe rifiutabile dal soggetto stesso, a differenza di quanto riservato ad una qualsiasi terapia.

Che la terapia nutrizionale sia una terapia è di evidenza lapalissiana. Ne presenta infatti tutte le caratteristiche ontologiche, per voler fare una incursione in campo filosofico. Ma soprattutto, avendo lo scopo di migliorare le condizioni di salute del soggetto, è da considerarsi atto terapeutico a tutti gli effetti anche secondo logica. Inoltre – aspetto decisamente più importante – è considerata tale da chi la pratica e la somministra, cioè dalla classe medica.

Va registrato che effettivamente alcuni singoli medici italiani, solo a titolo personale, sostengono tale distinzione. Questo non deve stupire: nel paese dei casi Di Bella e Stamina/ Vannoni siamo ormai abituati a tale degrado ideologico-culturale.

Ma la questione, come dicevamo prima, può sicuramente essere affrontata da un altro punto di osservazione, dal quale risulta del tutto priva di significato. Anche ammesso – ma non concesso – che la terapia nutrizionale sia da considerarsi una ordinaria cura della persona, la domanda è perché sarebbe, in tal senso, necessariamente da imporsi anche in presenza dell’esplicito rifiuto del soggetto. Scontato il principio giuridico dell’intangibilità del mio corpo, che risale addirittura al Habeas corpus della Magna Charta britannica del 1215, nessuno mi può neanche imporre il taglio dei capelli o della barba.

Infine bisogna considerare che nessuno può imporre forzatamente di alimentare chi si rifiuta di farlo sia per motivi ideologici, come nello sciopero della fame, né addirittura quando il rifiuto stesso nasce da un parziale vizio mentale, come nel soggetto anoressico.

Sempre rimanendo in campo giuridico è necessario fare un ulteriore ragionamento. La terapia nutrizionale si divide in due principali metodiche dal punto di vista medico. La somministrazione per via enterale, cioè attraverso l’apparato digerente, o per via parenterale cioè attraverso il sistema circolatorio. Entrambe le vie di somministrazione necessitano però di preliminari manovre invasive. Ma tutte queste manovre a loro volta per essere eseguite sul paziente necessitano – per legge – dell’acquisizione del relativo consenso informato. Pertanto ci troviamo di fronte all’assurda situazione – giuridica, ma di evidente riflesso pratico – di voler imporre obbligatoriamente terapie che però necessitano, per essere praticate, di trattamenti sanitari invasivi subordinati al consenso del paziente e pertanto rifiutabili.

In definitiva, mentre è sicuramente cresciuta la consapevolezza dei propri diritti nell’autodeterminarsi in materia sanitaria presso l’opinione pubblica – anche grazie ai casi Welby ed Englaro – il dibattito politico è ancora stagnante per una ormai storicamente infondata ed insostenibile posizione ideologica che trova ragione solamente nel tentativo di mantenere una vana rendita di posizione politica da parte del fronte confessionale.

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