di Leonardo Stiz 

Il Papa è sì la guida spirituale della religione monoteista con il maggior numero di fedeli al mondo, ma è anche il Sovrano di una “monarchia assoluta”, ovvero Città del Vaticano. Nello scacchiere geopolitico, il Pontefice gode di una notevole libertà, e gli effetti delle sue azioni hanno un’eco che spesso non ha pari con conseguenze a cui è necessario prestare attenzione.  

Lo Stato di Città del Vaticano nacque con la firma dei Patti Lateranensi nel 1929 per restituire sovranità territoriale alla Santa Sede dopo la scomparsa del potere temporale della Chiesa e dello Stato Pontificio.

È riconosciuto pressoché da tutti i Paesi del mondo, intrattiene relazioni diplomatiche con 180 Stati, ed è presente come osservatore in tutte le maggiori organizzazioni internazionali. Jorge Mario Bergoglio è quindi a tutti gli effetti, un Capo di Stato, ma non un Capo di Stato qualunque.

Il suo ruolo di suprema autorità religiosa della Chiesa Cattolica e Vicario di Cristo, a capo della religione monoteista col maggior numero di fedeli al mondo, gli conferisce un’autorevolezza transnazionale che non ha pari rispetto a quella di qualsiasi altro leader mondiale.

Se ciò non reca fastidio alcuno sul piano politico interno – il potere temporale del Papa e la sovranità della Santa Sede oggi sono circoscritti ad un territorio di 0,44 km quadrati con meno di mille abitanti – sul piano internazionale tale fattore genera effetti non indifferenti, tali da renderlo un attore geopolitico molto influente. Ma se da un grande potere deriva una grande responsabilità, va da sé che questo vada gestito con estrema cautela.

La decisione del Papa di portare con sé in Vaticano 12 profughi dall’isola di Lesbo, dove era in visita assieme al Patriarca Bartolomeo (che non ne ha preso nessuno), ha fatto scalpore. È vero, il tema dei migranti e dell’accoglienza è particolarmente caro a Bergoglio, che per il suo primo viaggio istituzionale aveva scelto l’isola di Lampedusa. In quell’occasione però nessun messaggio d’accoglienza si era concretizzato in un’azione diretta di “prelevamento” di alcuni rifugiati sotto gli occhi del mondo intero.

Certo si è trattato di un gesto simbolico, che tuttavia lascia pericolosamente intendere che la gestione dell’accoglienza di persone in fuga dipenda in buona parte dalla bontà d’animo dei decisori. Peccato che ciò sia fuorviante, poiché rischia di generare con impropria approssimazione, un’indicazione su chi siano i buoni e chi i cattivi. E anche se al momento, gli Stati nazione, sembrano i cattivi (lontani anni luce dal capire che una gestione coordinata del fenomeno migratorio basterebbe a limitare il problema), la verità è che non lo sono, perché seppur con risultati opinabili, stanno cercando di far fronte a questa emergenza superando tutta una serie di ostacoli che Papa Francesco non ha. Difatti come sovrano di una “Monarchia assoluta”, non deve fare i conti né con l’opinione pubblica né con il travagliato percorso politico interno tipico degli Stati democratici. Il Pontefice gioca da battitore libero, lanciando messaggi “d’accoglienza” a cui non dovrà rispondere. Il gesto simbolico del papa, inoltre, potrebbe trasformarsi in un ulteriore problema proprio per l’Italia che potrebbe subire le ricadute del suo messaggio d’accoglienza, trovandosi a gestire numeri ancora maggiori di migranti che, sempre più attratti dal Bel Paese, potrebbero raggiungere le sue coste in risposta al gesto di Bergoglio.

Portare 12 profughi a Roma (dove sono ospitati dalla Comunità di Sant’Egidio a carico del Vaticano) facendoli salire a sorpresa sull’aereo del Papa, sebbene sia un gesto encomiabile dal punto di vista umano, risulta sconsiderato per l’impressione che può generare su di un tema cruciale e complesso come le migrazioni. Questo anche – in minima parte – nei confronti dei migranti stessi, che versano in una condizione di incertezza e disinformazione.

Ci si potrebbe chiedere quale sia stato il criterio di scelta adottato da Bergoglio: “Si tratta di persone già richiedenti asilo per motivi umanitari” spiega Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di S. Egidio, “perché fuggono dalla guerra in Siria e vivono in situazione di vulnerabilità. E questo il criterio di selezione, la vulnerabilità. Una famiglia, infatti, ha i genitori più avanti con gli anni, che avrebbero difficoltà a reinserirsi nel mondo del lavoro. Un’altra invece ha un bambino traumatizzato dalle conseguenze del conflitto che ha vissuto. Sono persone con nomi e storie, come dice papa Francesco, ed è un fatto importantissimo”.  A ben pensarci, in realtà, la vulnerabilità dovuta ai traumi da conflitto e alle difficoltà di reinserimento è uno status che si addice a tutti i profughi per definizione, e non un criterio per selezionarne solo alcuni. Tale parametro andrebbe infatti spiegato anche a chi non è stato oggetto della grazia del Pontefice, cioè a chi in quel campo profughi ci è rimasto; sempre che non sia stato rispedito in Turchia (pochi giorni dopo la visita del Papa al campo di Moira, sull’isola di Lesbo, è difatti esplosa una rivolta).

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