“Non l’ho mai toccata con un dito, urla, minacce reciproche, insulti, ma non le ho mai fatto alcuna violenza fisica”, una frase come tante che, troppe volte, ascolto nel mio lavoro con gli uomini autori di violenza all’interno delle relazioni di coppia. Ogni volta che sento, nelle sue mille varianti possibili, un’espressione del genere ho di fronte un uomo che sta sostenendo che la violenza psicologica è meno grave di quella fisica e che quindi è, volendo, anche ammissibile o lo è certamente di più della seconda. Falso, lo so io e lo sa ogni altro professionista del settore. Fare una gradazione di cosa sia più violento e di cosa lo sia meno rischia di diventare giustificatorio e autoassolutorio, ma questo è ancora qualcosa che non posso far comprendere a quell’uomo, ci vorrà tempo, fatica e tanti colloqui affinché possa farlo. Questo succede anche con uomini che hanno agito delle violenze fisiche, ma non sono ancora pronti o capaci di riconoscerle come tali o ammetterle, quindi passano attraverso l’ammissione di qualche abuso verbale e dintorni, spesso minimizzando anche quello.

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La riflessione quindi verte tutta sul considerare quanto, nell’immaginario comune, la violenza psicologica, anche quando riconosciuta (e sappiamo che non è “semplice” riconoscerla come quella fisica) sia considerata una violenza di serie B.Un livido sul corpo è un qualcosa di tangibile, un livido nell’anima no. Non c’è trattato medico o psicologico che forse possa davvero esprimersi con competenza sul male all’animo perché vi è insita una tale soggettività che esclude a priori ogni schema che raggruppi le persone, se non per sommi capi. Forse, mi sbilancio, ci riescono solo i romanzi. Se da una parte è vero che la natura umana con la quale ci confrontiamo è sempre la stessa, è altrettanto vero che essa ha nel cambiamento individuale e inter-relazionale, non nella staticità, la sua ragion d’essere.

La violenza psicologica è molto più radicata all’interno della propria percezione, si può percepire anche come violento un qualcosa che altri non reputerebbero tale, questo entro certi limiti perché se uno schiaffo è indiscutibilmente una violenza anche un insulto lo è. Certo i confini sono più sfumati, ma questo non significa che la gravità sia diversa, anzi forse proprio la consapevolezza di quanto questa sia meno decifrabile dovrebbe far allarmare maggiormente. Laddove dei confini precisi mancano l’arbitrarietà abbonda e la confusione fa razzia di ogni sentimento. Anche nelle relazioni di coppia nelle quali non si hanno forme di violenza lo scivolamente in dinamiche conflittuali sappiamo essere una certezza prima o poi, è sempre un equilibrio e uno scontro di bisogni che si diversificano tra le persone e cambiano con il tempo. L’uso psicologico di alcune modalità può trasformarsi in abuso e l’espressione ferire per il gusto di ferire, in certi frangenti, si avvera.

Ogni relazione esige attenzione costante all’altro, pur nell’impossibilità di una continuità in tal senso, da qui l’inevitabilità del conflitto che non implica però necessariamente delle forme di violenza. La facilità con cui si può scivolare in forme di abuso psicologico non indica che ciò debba accadere, ma ci fa riflettere su di un tipo di violenza maggiormente subdolo e pervasivo, quindi non di certo meno grave e sicuramente non meno presente. Porre attenzione all’altro è faticoso perché ci decentra dal nostro punto di vista, ma è solo a partire dall’altro che possiamo tornare dentro di noi con maggior vigore e soprattutto scoprire del nuovo. Attenzione deriva dal latino attentio che significa “volgere l’animo a qualcosa”, l’animo è quanto ho di più intimo ed è esso che devo esternare nel rapportarmi all’altro. L’invito è, come sempre, quando parliamo di violenza di genere, ad allontanarci da ogni forma di semplificazione.

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