Un pomeriggio d’inverno, camminando lungo la via Montegani a Milano, verso il crepuscolo può capitare di essere attratti da un alone luminoso intensamente colorato proveniente dalle finestre di una chiesa. La severità delle forme di quell’edificio in mattoni aumenta il contrasto con la delicatezza di quella luce, in fondo inspiegabile.

È difficile trattenersi dall’avviarsi verso l’ingresso del tempio che si trova rialzato dalla strada. Saliti pochi gradini si attraversa il pronao con quattro pilastri rettangolari compresi tra due ante laterali, sulle quali si aprono passaggi ad arco.

Superato il box di legno che introduce all’interno, una volta entrati ci si dimentica istantaneamente della città appena lasciata alle spalle. La geometria rigorosa degli spazi interni si fa armatura su cui si dispiegano piani di luce colorata.

“Che cosa è stata l’arte per me?… Combinare le tradizioni della pittura e della scultura nell’architettura attraverso gesti di luce elettrica atti a definire lo spazio”.

 Colori
La navata centrale è dominata dal celeste che “bagna” la volta a botte che la copre. Quella luce, caricandosi di intensità, si scurisce invadendo le navate laterali.

Lo sguardo è subito “tirato” verso la parete di fondo absidata che brilla di un giallo dorato. Quella conca intensamente illuminata, tenendo in controluce l’altare, disposto al disotto di un baldacchino sormontato da un timpano, ne esalta il ruolo di fulcro simbolico dello spazio; e il grande disco attraversato da un taglio centrale, opera dell’artista Pino Pedano, sospeso sul presbiterio, ancora grazie al controluce potenzia ulteriormente l’effetto della luce sull’area del celebrante.

Il transetto è inondato di luce rosa che contrasta la sobrietà degli elementi architettonici: nicchie, pulpiti, specchiature, gli organi a canne raddoppiati per seguire la simmetria dell’impianto architettonico, acquistano così maggior evidenza.

Lo spazio della luce
L’impianto luministico, pur confermando la simmetria degli spazi che i colori fortemente differenziano, come un antico ciclo di affreschi rilegge l’unità dello spazio interno innescando una nuova armonia tra le parti. “L’intero contenitore interno e le sue parti –pareti, pavimento, soffitto- avrebbero potuto dare un sostegno a questa striscia di luce ma non ne avebbero limitato l’azione se non per avvolgerla”.

Navate centrale, navate laterali, presbiterio, abside, transetto, gli intradossi delle coperture e perfino i pavimenti, nelle differenze anche stridenti di luce colorata, si legano in un insieme visivo più potente di quello dello spazio architettonico, che appare come nudo a luci spente.

Linee vs superfici
Alle superfici colorate si oppongono le linee illuminanti dei tubi al neon che sottolineano certi angoli. “… capii che si poteva demolire lo spazio di una stanza e giocarci allestendo illusioni di luce vera (luce elettrica) in corrispondenza dei punti di congiunzione cruciali nella composizione della stanza. Per esempio se si fissa una lampada a fluorescenza da 2,5 metri nella verticale di un angolo, si può disintegrare quell’angolo con un bagliore e un’ombra raddoppiata”.

Sole vs neon
La natura e l’artificio umano dialogano sul piano immateriale della luce: sulle pareti forate dalle aperture delle finestre, di giorno irrompe il bagliore solare bianco con una densità assolutamente diversa, lontana ed estranea a quella colorata dei neon. “… non esaltano il santissimo redentore in elaborate cattedrali. Sono concentrazioni costruite che celebrano stanze spoglie. Diffondono una luce limitata… Non vi è alcuna spiritualità opprimente con la quale si è tenuti ad entrare in contatto. Mi piace che il mio uso della luce sia apertamente situazionale, nel senso che non c’è alcun invito a meditare, a contemplare”.

In quella luce, dunque, nessuna intenzione di esprimere spiritualità, eppure le nenie di un gruppo di persone in preghiera si fondono nell’atmosfera irreale creata dai piani di luce colorata. E la coscienza di chi è passato davanti a quell’edificio ed è entrato, essendo stato attirato dal bagliore di un colore, si sposta su un piano libero, vuoto, di movimenti continuamente quanto lievemente e inspiegabilmente variati del sentire; movimenti della stessa natura di quelli che accadono tra le rovine maya di Tulum o sulla giara di Siddi, nella valle di Pantalica o sulle rocce del Sassolungo o nel deserto. Potrebbe trattarsi della percezione del senso del sacro.

Santa Maria in Chiesa Rossa costruita da Giovanni Muzio, l’architetto della Ca’ Brutta in via Moscova a Milano, negli anni Trenta sulla base di un precedente progetto, dal 1997 ospita l’installazione Untitled. Un anno prima, in occasione del restauro, il parroco della chiesa aveva invitato l’artista statunitense Dan Flavin, che da giovane aveva studiato teologia per poi approdare a posizioni agnostiche, a pensare un’opera site-specific per gli spazi della chiesa. L’intervento venne realizzato con il supporto di Fondazione Prada, il Dia Center for the Arts di New York ed il Dan Flavin Estate.

Quello stesso anno, chiudendo l’ultimo dei dialoghi intrapresi con il cardinale Carlo Maria Martini, Umberto Eco scriveva: “… ammetta che se Cristo fosse pur solo il soggetto di un grande racconto, il fatto che questo racconto abbia potuto essere immaginato e voluto da bipedi implumi che sanno solo di non sapere, sarebbe altrettanto miracoloso (miracolosamente misterioso) del fatto che il figlio di un Dio reale si sia veramente incarnato. Questo mistero naturale e terreno non cesserebbe di turbare e ingentilire il cuore di chi non crede. Per questo ritengo che, sui punti fondamentali, un’etica naturale – rispettata nella profonda religiosità che la anima – possa incontrarsi coi princìpi di un’etica fondata sulla fede nella trascendenza, la quale non può non riconoscere che i princìpi naturali siano stati scolpiti nel nostro cuore in base a un programma di salvezza. Se rimangono, come certo rimarranno, dei margini non sovrapponibili, non diversamente accade nell’incontro tra religioni diverse. E nei conflitti di fede dovranno prevalere la Carità e la Prudenza”.

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