Infettato dal virus dell’Hiv costruito in laboratorio. Si tratta del primo caso al mondo e si tratta di un ricercatore. La scoperta è avvenuta anche in maniera scioccante. Perché il ricercatore è andato in ospedale per donare il sangue e ha scoperto di essere sieropositivo. Poiché il paziente non ha aveva avuto nessun comportamento a rischio, il virus rilevato nel suo organismo è stato sequenziato. Il risultato è stato che non si trattava di un virus umano ma appunto un “costrutto”

“Il primo caso al mondo” ha spiegato all’AdnKronos Salute Andrea Gori, direttore del reparto Malattie infettive dell’ospedale San Gerardo, università di Milano-Bicocca, uno dei camici bianchi che si è occupato del caso, finito sotto i riflettori a Boston. Sono stati infatti gli scienziati italiani a scoprire il contagio e hanno riferito i dettagli negli Usa in occasione del Congresso Croi (Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections). “È la prima volta al mondo che questo succede. Pensavamo fosse impossibile”, commenta Gori parlando di una “storia drammatica che spinge a una riflessione sui livelli di biosicurezza dei laboratori in cui si lavora con questi costrutti. Si tratta di metodiche che si utilizzano per la ricerca su vaccini per l’Hiv e alla base di tutte le terapie geniche“. L’unica cosa che ha insospettito i medici del San Gerardo che si sono occupati del paziente è che “questa persona era stata a lavorare all’estero in un laboratorio altamente qualificato nella gestione di costrutti di Hiv. Da qui è nato il sospetto che potesse essersi verificato qualche errore”.

I medici del San Gerardo chiedono la collaborazione di Carlo Federico Perno, del laboratorio di Virologia dell’università di Roma Tor Vergata per sequenziare tutto il virus. “Scopriamo così che di fatto questo virus non è umano, ma bensì ha caratteristiche genetiche che derivano da costrutti utilizzati in laboratorio per fare esperimenti sull’Hiv. Da qui nasce tutta la storia”. L’aspetto inquietante è che “il paziente non riferisce alcun errore accidentale, nessuna rottura di guanti o tagli che potrebbero giustificare il contagio. Così abbiamo indagato per spiegare il fenomeno ed è emerso che questi costrutti si sarebbero dovuti utilizzare in una situazione di sicurezza diversa da quella in cui la persona stava lavorando. Il paziente pensava infatti di usare vettori non replicanti che si utilizzano in un livello di biosicurezza 2 (biosafety level 2). Mentre in maniera assurda si è infettato con un plasmide, un vettore Hiv replicante che deve assolutamente essere utilizzato in livello di sicurezza 3, non 2″.

“C’è stato questo errore: si è manipolato materiale genetico particolarmente pericoloso in condizioni di sicurezza non corrette. Ma questo non ci dice come il paziente abbia potuto infettarsi perché non c’è stato nemmeno un incidente“. Un’ipotesi, spiega Gori, “è che, trattandosi di costrutti utilizzati a concentrazioni elevate, questo può avere avuto un ruolo. Non solo: nel laboratorio in questione si utilizzava come ‘cavallo di Troia’ per entrare nelle cellule la glicoproteina del Vsv che, se veicolata da quel vettore, avrebbe potuto espandere in maniera esponenziale le capacità infettiva del costrutto”.

La persona “si occupava proprio di questi esperimenti – continua Gori -. Il vettore Hiv replicante legato alla glicoproteina del Vsv ha dato un costrutto di pericolosità immensa”, proprio “perché replicante e legato a una glicoproteina che riesce a farlo entrare in moltissimi tipi di cellule del nostro organismo”, non solo in quelle bersaglio dell’Hiv. Il costrutto, una volta infettato il soggetto, “è diventato virus umano a tutti gli effetti, ma è nuovo per noi. Anche se da quello che abbiamo studiato non sembra si comporti in maniera diversa”.

Ma come è avvenuto il contagio? “Noi pensiamo a livello respiratorio – ipotizza l’esperto del San Gerardo di Monza -. Il fatto che fosse legato alla glicoproteina del Vsv può in parte spiegare la maggiore contagiosità di questo costrutto. Contagio che potrebbe per ipotesi arrivare per via respiratoria. A bravissimo pubblicheremo un articolo sul caso”.

Una “drammatica bomba virale infettante, manipolata in un ambiente non congruo. Ecco perché negli Usa questo caso ha destato scalpore e ha posto il problema della revisione della sicurezza in laboratorio”spiega Carlo Federico Perno, direttore del centro di Tor Vergata che, insieme al gruppo di Andrea Gori si è occupato fin dall’inizio del caso.

Ma cos’è accaduto? “In realtà il ricercatore ha lavorato con virus ricombinanti inglobati in un guscio proteico del virus della stomatite vescicolare – Vsv – che funziona come una navicella, un ‘cavallo di Troia’ per far penetrare il carico negli organismi” da conquistare. L’idea è che il nemico “non sia entrato per un incidente, ma come un normale aerosol, attraverso le mucose”. In pratica la persona è venuta a contatto con un guscio che, per un caso sciagurato, conteneva un virus infettante. È probabile dunque che il mix di ‘guscio Vsv’ più virus infettante abbia contribuito a innescare “una bomba a orologeria, in un ambiente non congruo. Il virus costruito in laboratorio, poi, si è adattato all’organismo dell’ospite ed è diventato aggressivo“. Si tratta di un evento, “al momento a quanto sappiamo, unico e gravissimo, che ha suscitato allarme e che – conclude Perno – pone il problema della revisione della sicurezza dei laboratori di tutto il mondo, per tutelare chi vi lavora”.

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