“Tutto quello che so è che quando i peshmerga hanno riconquistato il villaggio, le case stavano in piedi. Non potevamo tornare ma le vedevamo chiaramente da distanza. Poi hanno distrutto le case coi bulldozer, non ho capito perché. Non è rimasto in piedi niente. Hanno distrutto tutto senza alcun motivo”: Maher Nubul, padre di 11 figli, è fuggito dal villaggio di Tabaj Hamid nell’agosto 2014. Quattro mesi dopo, il villaggio è stato ripreso dai peshmerga ed è stato interamente raso al suolo.

“Dopo che le nostre case erano state buttate giù, eravamo pronti a rimboccarci le maniche e a ricostruirle ma i peshmerga ci hanno impedito di tornare. Poi sono arrivate le milizie yazide coi bulldozer e hanno distrutto tutto, compresi i frutteti. Non abbiamo potuto salvare nulla”, racconta Ayub Salah, abitante di Sibaya, un villaggio a nord-est del monte Sinjar.

Sono solo alcune delle voci raccolte da Amnesty International, che pubblica oggi un rapporto shock nel quale si documentano numerose violazioni dei diritti umani nel nord dell’Iraq, ad opera dei peshmerga (le forze del governo regionale del Kurdistan) e anche delle milizie yazide. Peshmerga da tempo sostenuti e armati dai governi occidentali in funzione anti Isis, compresa l’Italia che ha inviato armi e addestratori militari.

Amnesty International accusa i peshmerga e altre milizie curde di aver demolito, fatto esplodere o dato alle fiamme migliaia di abitazioni nel nord dell’Iraq, dopo aver raccolto informazioni sul campo in 13 città e villaggi e aver ascoltato oltre 100 fra testimoni oculari e vittime di sparizioni forzate. A supporto di queste voci, si aggiungono immagini satellitari che documentano le distruzioni di massa ad opera dei peshmerga e anche, in alcuni casi, di milizie yazide e gruppi armati curdi provenienti da Siria e Turchia, sempre coordinati dai peshmerga. Il governo regionale del Kurdistan avrebbe anche impedito alle persone di tornare nelle zone da cui sono state cacciate.

Il rapporto, dal titolo Banished and disposessed: forced displacement and deliberate destruction in northern Iraq, descrive gli sfollamenti forzati e la distruzione su larga scala delle abitazioni nei villaggi e nelle città delle province di Ninive, Kirkuk e Diyala, che i peshmerga hanno strappato a Daesh tra settembre 2014 e marzo 2015. A Sibaya e in altri quattro villaggi arabi nei dintorni (Chiri, Sayir, Umm Khabari e Khazuqa), la maggior parte delle case è stata data alle fiamme nel gennaio 2015 dalle milizie yazide e da gruppi armati curdi provenienti da Siria e Turchia e operanti nella zona del Sinjar. Gli stessi sono ripassati coi bulldozer cinque mesi dopo.

Amnesty International ha visitato la zona nel novembre 2015 e ha verificato l’ampia distruzione di questi villaggi. In occasione di una precedente visita, nel mese di aprile, molte case erano state saccheggiate e incendiate ma stavano ancora in piedi. Secondo Amnesty, i peshmerga hanno tentato di dare la colpa a Daesh senza fornire alcuna prova, smentiti anche da altri curdi che hanno ammesso che l’obiettivo della distruzione era fare in modo che gli abitanti arabi non avessero un posto in cui tornare. In almeno due occasioni, poco dopo l’arrivo nei villaggi distrutti, i ricercatori di Amnesty sono stati bloccati dai peshmerga, che hanno impedito loro di scattare fotografie e li hanno accompagnati fuori dall’area.

La ricerca nel nord dell’Iraq è stata guidata da Donatella Rovera, alta consulente di Amnesty International per la risposta alle crisi, che spiega: “Le forze del governo regionale del Kurdistan paiono aver lanciato una campagna coordinata con l’obiettivo di allontanare con la forza le comunità arabe, distruggendo interi villaggi nelle zone dell’Iraq settentrionale strappate allo ‘Stato islamico’. Lo sfollamento forzato di civili e la deliberata distruzione di case e beni di proprietà senza giustificazione militare possono equivalere a crimini di guerra. Decine di migliaia di civili arabi, costretti a lasciare le loro case per via dei combattimenti, lottano per la sopravvivenza in condizioni disperate all’interno di campi improvvisati. Molti hanno perso i loro mezzi di sostentamento e tutti i loro beni.”

Alla base di queste azioni ci sarebbero non ragioni di sicurezza, come affermato da rappresentanti del governo regionale curdo, ma la volontà di punire le popolazioni arabe per il loro sostegno – reale o presunto – a Daesh e quella di ottenere e consolidare vantaggi territoriali in una zona contesa, da sempre rivendicata dai curdi, a loro tempo obbligati a sfollare da Saddam Hussein, che vi aveva insediato popolazioni arabe.

Centinaia di migliaia di persone hanno cercato riparo nelle zone sotto controllo curdo quando, nel 2014, lo Stato islamico ha conquistato ampie porzioni dell’Iraq del nord. Ma queste difficili circostanze non possono giustificare le deliberate distruzioni e altre gravi violazioni dei diritti umani. “Chiediamo al governo regionale del Kurdistan di porre immediatamente fine alla distruzione illegale di abitazioni e proprietà. Ai civili costretti con la forza a lasciare i loro villaggi dovrà essere consentito di farvi rientro al più presto.”

“È inoltre fondamentale – ha concluso Rovera – che la comunità internazionale, compresi gli stati membri della coalizione diretta dagli Usa contro lo ‘Stato islamico’, così come Regno Unito, Germania e gli altri stati che sostengono i peshmerga, condannino pubblicamente queste violazioni del diritto internazionale umanitario e assicurino che l’assistenza che stanno fornendo al governo regionale del Kurdistan non ne favorisca di ulteriori”.

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