Ammissibile per la Consulta, sconveniente per il Governo. Che subito si è messo al lavoro per disinnescarlo. Il referendum anti trivellazioni, dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale, preoccupa e non poco Matteo Renzi. L’ultima conferma è arrivata a poche ore dal via libera alla consultazione popolare, quando il premier ha chiesto ai suoi di studiare un provvedimento in grado di evitare le urne che – a questo punto il condizionale è d’obbligo – dovrebbero essere convocate in una data da scegliere nel lasso di tempo che va dal 15 aprile al 15 giugno. Secondo fonti della maggioranza interpellate da ilfattoquotidiano.it, l’intervento di Palazzo Chigi punterà proprio a circoscrivere la durata delle autorizzazioni, tema al centro del sesto quesito referendario su cui saranno chiamati a esprimersi gli italiani. Tradotto: pur di non andare al voto, l’esecutivo è disposto ad accontentare chi vuole porre un limite temporale alle concessioni. Come? Tecnicamente l’esecutivo dovrebbe ricorrere ad un decreto legge che vada a modificare l’articolo 6 comma 17 del Codice dell’Ambiente, comunque in ottemperanza con quanto indicato nel testo del referendum. Altra strada, invece, potrebbe essere quella di un disegno di legge, ma al momento appare un’ipotesi secondaria. Interpellato sulla questione da ilfattoquotidiano.it, l’entourage di Renzi ha rispedito al mittente il retroscena, parlando di notizia destituita di ogni fondamento. Restano tuttavia le conferme di chi, tra i democratici, conosce bene le intenzioni del governo.

La partita è tutta politica. E la ricerca di petrolio, almeno in questo frangente, è diventata un aspetto secondario della vicenda. Che il governo volesse evitare il voto, del resto, era chiaro già alla fine del 2015, con la Legge di Stabilità predisposta a recepire (in qualche modo) la maggior parte delle richieste referendarie (cinque su sei). In quell’occasione i responsabili dei movimenti e i rappresentanti delle dieci Regioni promotrici (l’Abruzzo non si era ancora fatto da parte) gridarono alla vittoria, ma sottolinearono immediatamente quale fosse il vero obiettivo di Renzi: non andare alle urne. I sondaggi che circolavano in quei giorni, del resto, parlavano di raggiungimento del quorum praticamente certo e di vittoria schiacciante con quasi il 70% della mozione anti-trivelle. Ora la storia si ripete, identica.

E il motivo è sempre lo stesso. Secondo il ragionamento di alcuni parlamentari di stretta osservanza renziana, l’intenzione del presidente del Consiglio è sempre stata quella di far scegliere al governo e non ai cittadini italiani la strada da seguire sulla questione idrocarburi. La ragione non è tecnica, ma mediatica e di strategia del consenso. Perché non è tanto la questione trivelle che agita i sonni del premier, né tanto meno l’esito quasi scontato del referendum. Il problema, in caso di vittoria, diventerebbe l’uso politico che ne farebbero alcuni governatori particolarmente impegnati nel sostenere la consultazione. E non per interesse personale, bensì per criticare la politica energetica del governo e fomentare, in questa maniera, il fronte del no a qualsiasi intervento strategico dello Stato in tema di infrastrutture, siano esse trivelle, gasdotti o altre opere simili. Con ripercussioni al momento incalcolabili nel grado di fiducia degli italiani nei confronti dell’ex sindaco di Firenze.

La conferma ai timori di Renzi, del resto, sono le parole con cui Michele Emiliano ha commentato la scelta della Consulta. “Ovviamente si tratta di un referendum eminentemente politico, che tende a spingere il governo a elaborare una politica energetica. Cosa che ancora non ha fatto” ha detto il governatore della Puglia. Che poi ha aggiunto un passaggio quasi profetico, specie alla luce del retroscena in questione: “Mi auguro che a questo punto il governo non metta a punto un’altra norma ammazza-referendum perché bisogna evitare che gli italiani pensino che di queste cose non si può discutere nel nostro Paese“. Esattamente l’effetto che avrebbe un decreto contro la consultazione popolare.

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