Photocall del film di Checco Zalone Quo Vado

Se di questi tempi un tipo come Donald Trump può essere preso sul serio quale candidato alla presidenza degli Stati Uniti, solo perché si è fatto una barcata di soldi (e non si sa bene in quale modo); orbene, sulla base dello stesso criterio si può appuntare all’esile filmetto Quo Vado? il merito di aver rilanciato la sonnacchiosa produzione cinematografica italiana per il grande pubblico (con tanto di encomio da parte del ministro della cultura Dario Franceschini). Un banale remake fracassone della quarantennale serie di Guerre Stellari si trasforma nell’intrigante operazione, carica di significati e altrettante implicazioni psicologiche, su cui buona parte della critica ha discettato con un certa dose di spudoratezza.

Gli incassi quantitativi come metro di validazione qualitativa, che prevale su ogni altra considerazione, al tempo – appunto – in cui la pecunia ascende a criterio esclusivo dell’apprezzabilità e conseguente successo?

Resta comunque il fatto che questi prodottini di massa sono la palese conferma che – per quanto concerne il genere blockbuster – la Settima Musa mimetizza le proprie magagne soltanto grazie alla contestuale infantilizzazione delle moltitudini di fruitori, regrediti all’età puberale interiorizzando un’estetica da videogiochi e una comicità fescennina, attualizzata nei format scurrili del cinepanettone.

Difatti, qui ormai il grande assente è la sceneggiatura. Il settimo episodio di Star Wars è un clamoroso riciclo di fondi di magazzino; specie dell’episodio IV (Una nuova speranza), cronologicamente il primo ed il più fresco della serie: se allora c’era la Morte Nera che poteva distruggere un intero pianeta, adesso ce n’è una molto più grossa ma egualmente letale; la salvezza della Resistenza dipende sempre dalla mira infallibile (guidata dalla Forza) di un pilota che corre sul suo velivolo lungo un’infima strettoia, per centrare il bersaglio infinitesimale con un unico colpo ben assestato. Oltre a ciò, un continuo correre a perdifiato e a casaccio allo scopo palese di riempire i vuoti dello script.

Le folle che accorrono alla proiezione dell’opera ultima di Checco Zalone assistono, probabilmente a propria insaputa, a un’altro rammendo di scampoli filmici e sketch da cabaret televisivo tipo Drive In, ravvivato dall’ambientazione in paesaggi esotici (il Polo Nord, l’Africa sub-sahariana) secondo l’insegnamento intrinsecamente ruffiano di Alberto Sordi, quando la sua vena iniziava a esaurirsi (da Fumo di Londra a Sono un fenomeno paranormale, a Tassista a New York). Del resto vale per Luca Pasquale Medici, in arte Checco Zalone, lo stesso dubbio che gravava sul “grande” Sordi “borghese piccolo, piccolo”: lo fa o lo è?

Sordi rappresentava il peggio del carattere nazionale con un’immedesimazione scenica così marcata da lasciare intendere credibilmente trattarsi di identificazione esistenziale. In Medici-Anzalone, la caricatura del proprio personaggio spinta oltre le soglie del bieco e dell’imbarazzante – almeno secondo qualcuno – ne perseguirebbe l’irridente stroncatura critica; ma così sottotraccia e vaga da risultare oltremodo ambigua. Da potere anche rivelarsi il contrario: l’effettiva condivisione dei disvalori esageratamente grotteschi ostentati dal personaggio. Una sorta di accreditamento catartico mediante immersione nel canagliesco più spudorato.

Comunque, questo deficit di strutturazione narrativa, spia di un preoccupante corto circuito di creatività, si traduce nella caratteristica che – nel caso in questione – accomuna generi pure tanto diversi tra loro come un fantasy e una commedia all’italiana di ultima generazione: l’incorporazione di stereotipi in quantità industriale, seppure a criteri rispettivamente invertiti.

La presa in carico della serie creata da Gorge Lucas da parte di una cattedrale del buonismo quale la Disney ha comportato overdosi di politicamente corretto; sparse a piene mani su tutto Il risveglio della Forza, a partire dal casting: la protagonista Rey è di genere femminile, seppure tendente al fallico, il suo partner Finn di colore assicura adeguato pluralismo multiculturale, probabilmente nei prossimi episodi si scoprirà che il robottino sferico, custode dell’ennesima trasmissione segreta, è gay; intanto lo scellerato Kylo Ren, apprendista del Lato Oscuro della Forza, mostra evidenti tratti somatici mediorientali.

Al contrario la comicità zaloniana pratica alla grande la retorica della scorrettezza politica, tanto che al 95 per cento della durata il film è il delirio ideologico della neoborghesia cafona in una versione tamarra: machismo omofobo, mentalità da free rider, irrisione dei valori pubblici, possessività alla Mastro don Gesualdo. Il tutto presentato in un tale aura di simpatia da renderlo apprezzabile per un pubblico già predisposto in quel senso. Quanto si diceva accennando all’ambiguità del messaggio.

Poi, in dirittura finale, il protagonista si emancipa dal fancazzismo/menefreghismo per amore di una bella ambientalista/animalista (ennesimo stereotipo alternativo) che lo ha reso padre. Ma la conversione potrebbe rivelarsi di breve durata, stante la sostanziale superficialità e vaghezza di carattere dell’apparente converso.

Faranno pure record di incassi, ma queste pellicole non apportano proprio un bel niente ai nostri immaginari. Anzi, producono esiti contrari a quanto ci si aspetterebbe: quella avventurosa finisce per annoiare, quella con pretese divertenti non strappa risate.

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