EIGENGRAU

 “Gli eroi son tutti giovani e belli” (Francesco Guccini, “La Locomotiva”)

MILANO – Un’intuizione che era lì, lampante, talmente abbagliante da non essere notata. Ed invece, l’occhio scrutante e scouting di Rodolfo Di Giammarco ha fatto incontrare due gruppi simili per provenienza geografica, la Lombardia, anagrafe, trentacinque-quarantenni, che usano allo stesso modo le armi dell’ironia tagliente, il gusto del contemporaneo, miscelato a temi profondi che ci toccano quotidianamente e un senso del ritmo e dell’affiatamento molto vicini.

Come non pensarci prima? Teatro Filodrammatici e Carrozzeria Orfeo, i primi più sodali con la drammaturgia d’importazione britannica, quel suono freddo di parole feroci di slang appuntiti, i secondi attraverso la scrittura articolata, strutturata e complessa di Gabriele Di Luca che molto si rifà, come lui stesso racconta, alle serie tv americane. Stessa costola e radice comune, ma differente sbocco e svelamento drammaturgico: se il british seziona e spacca lasciandoci sull’orlo del precipizio, l’american style ha nel cannone il suo colpo preferito; se il primo modus lambisce facendoci riflettere nell’impotenza come naufraghi, la seconda modalità, come caterpillar, sfonda anche le porte aperte con la forza dirompente di un fiume in piena.

E’ la distanza tra il londinese contratto, di finali mangiucchiate e smozzicate, di mattoni rossi e pioggerella, e il newyorkese in bianco e nero, bocca aperta a digrignare, sillabe larghe ad inglobare nel gioco atavico dello spostamento della frontiera tipicamente Usa e getta. Se l’uno è contenitivo, l’altro è esplosivo.

In questa crepa l’unione tra Di Luca (portando con sé la sua “ombra”, Massimiliano Setti) e Bruno Fornasari (che ha messo in campo il suo “scudiero”, Tommaso Amadio) ha generato questo esperimento, ampiamente riuscito, divenuto la regia condivisa del testo di Penelope Skinner, “Eigengrau” (titolo di non facile pronuncia e condivisione alle nostre latitudini, che allontana gutturalmente; forse era il caso di scovarne altri più curiosi e ammiccanti, abitudine nella quale i due gruppi sono assi), idea lanciata nello stagno appunto dal critico romano per la sua rassegna “Trend”.

Sono quattro spicchi, quattro specchi, quattro interni dello spirito, quattro caverne dell’anima, quattro intimi chiusi giardini aridi, i personaggi che qui si incontrano e scontrano. Abbracci e divisioni, scintille e spinte. Quattro giovani, o meglio giovanili ritratti, in quell’età di mezzo dove le grandi scelte o si sono già fatte o si subiscono quelle degli altri, ogni giorno a rintuzzare perdite, a risollevare cocci, a rincollare sogni infranti: la femminista ad ogni costo (Valeria Barreca, barricadera e battagliera), che vorrebbe al suo fianco un uomo che la domini e le impartisca ordini trattandola come casalinga da dopoguerra, schiava, amante e cuoca, il manager in carriera (Amadio, sicuro come condottiero di una biga al galoppo al Circo Massimo) con la sua esistenza in pugno, giacca e cravatta ma in completa solitudine, che usa gli altri per rimpolpare il suo ego continuamente famelico di attenzioni, l’ossessiva scaramantica logorroica ed emotivamente adolescenziale (Federica Castellini, equilibrista in punta di filo) che crede all’amore eterno e scambia casualità e coincidenze per segni del destino o dell’oroscopo, il perdente, sfigato e fallito (Setti, che sempre riesce ad essere un fiorettista in un negozio di vasi cinesi, a segnare e scalfire con delicatezza) che dopo un lutto familiare si è lasciato andare alle patatine e al divano, senza più la voglia di reagire, senza più sorrisi.

Il titolo indica appunto il grigio di fondo percepito dagli occhi immersi nell’oscurità. E’ uno scontro di latitudini differenti che crea un corto circuito in quest’incessante incedere alla ricerca della felicità che si nasconde dietro la difesa della donna, dietro le conquiste sentimental-sessuali, dietro un sofà che protegge dal mondo indifferente là fuori, dietro la disperata ricerca di avere qualcuno al proprio fianco. Il nostro è un mondo che non ammette sconfitte, che tritura i perdenti, che ci richiede di essere migliori di quello che siamo, di alimentare la nostra autostima per battere, schiacciare (mourinamente) gli altri o per far credere di essere inattaccabili, perfetti. Un gioco ad innalzare la soglia, e le aspettative, e quindi anche le delusioni, una corsa degli armamenti da Guerra Fredda, che ci chiude in bolle di sapone fragili come le nostre convinzioni tese a rinsaldare esistenze altamente frangibili.

L’andamento, di impennate e cadute, a personaggi alterni, sposta l’ago delle spicciole vittorie ora all’uno ora all’altra figura, ognuno troppo solo e concentrato sul sentire che cosa gli si muove nella pancia piuttosto che ascoltare le voci d’intorno, le esigenze degli altri. Vince l’anaffettività, quell’egoismo salvifico che le grandi metropoli frantumatrici dei sentimenti producono, alimentano e foraggiano, quel senso di precarietà dilagante che mira ad autoassolversi dalle proprie responsabilità da una parte e a vedere negli altri i danni peggiori ed errori imperdonabili: chiamalo spirito di sopravvivenza. L’amore con l’amore si paga. Ed è vero anche l’opposto. Ognuno dei quattro reagisce alle proprie debolezze, chi con l’arroganza, chi con la sottomissione, chi con spavalderia, chi infliggendosi mutilazioni: “Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Visto al Teatro Filodrammatici, Milano, il 1 dicembre 2015.

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