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La nomina dei tre giudici mancanti della Corte Costituzionale offre uno spunto per una riflessione, più ampia e profonda, sia sulla vicenda che sulla normativa che vi è dietro. La Costituzione, all’art. 135, dispone che i 15 giudici della Corte Costituzionale siano scelti per un terzo dalle magistrature superiori, ordinarie e amministrative, per un terzo dal Presidente della Repubblica e per un terzo dal Parlamento in seduta comune. Per la prima votazione è necessaria la maggioranza dei due terzi e per le successive quella dei tre quinti.

Da qui nasce la polemica sulla lottizzazione della Corte Costituzionale: quella prassi, cioè, tanto inevitabile quanto ormai consolidata grazie alla quale i partiti, i più rappresentativi, individuano i propri candidati spartendosi le 5 caselle disponibili, tre nel caso dell’ultimo anno e mezzo, indicando personalità spesso legate, più o meno palesemente, al partito.

Il fatto è che il dettato costituzionale rende necessaria la scelta condivisa, ma allo stesso tempo, per arretratezza, per ingenuità rispetto alla classe politica o per speranza dei costituenti, non considera o considera tollerabile il rischio che la nomina dei giudici si risolva in una mera spartizione politica.

Il problema posto nelle ultime settimane da diverse fazioni politiche, se considerato al di fuori della ordinaria dialettica politica che è inevitabilmente faziosa e (spesso) poco obiettiva, è un problema che esiste realmente e non riguarda solo le maggioranze.
Il fatto stesso di dare al Parlamento il potere di nominare ben 5 membri su 15 della Corte Costituzionale è segno di due particolari intenti del costituente: la volontà di dare alla politica la possibilità di non vedere la propria funzione neutralizzata da altri poteri istituzionali. E infatti la Corte Costituzionale italiana giudica anche nei conflitti fra poteri e, senza una funzione parlamentare come quello della nomina dei giudici si assisterebbe, in un eventuale conflitto tra Parlamento ed altri a un evidente sbilanciamento della Corte a favore di questi ultimi. Altro intento è quello di dare alla Consulta una prospettiva di giudizio anche politica e non solamente giuridica, così da poter tenere conto dell’esigenza della Corte di stare al passo delle trasformazioni sociali e dare alla Costituzione una lettura aggiornata e a queste ultime orientata.

Sotto un’altra prospettiva, invece, ed è la considerazione che sta a fondamento dei forti scontri di questi mesi, si potrebbe pensare che un Parlamento che ha il potere di nominare un terzo dei giudici potrebbe potenzialmente incidere, in maniera indiretta, sull’attività della Corte e sulle sue sentenze, indirizzandole a favore dei propri provvedimenti. È per questo che alcuni esponenti politici, salvo poi rinunciare, hanno provato ad opporsi ad alcuni candidati asseritamente di bandiera che, stando alle critiche, avrebbero potuto difendere in conflitto di interessi le riforme del Governo nei prossimi giudizi di ammissibilità referendaria per la riforma costituzionale e di costituzionalità per la legge elettorale.

Ma la durata del mandato dei giudici costituzionali (9 anni), la loro inamovibilità, le immunità previste e le prerogative di indipendenza da ogni condizionamento, che sono le stesse previste per ogni parlamentare, sembrerebbero offrire a questi timori adeguate rassicurazioni.

Eventualmente, in occasione della riforma costituzionale, si poteva rivedere la soglia di maggioranza attualmente prevista in tre quinti. Considerando che in seduta comune il Parlamento risulterebbe composto da 730 membri, i tre quinti corrisponderebbero a 438 parlamentari. Basterebbe, come è bastato in questa occasione, un accordo con uno solo dei partiti escludendone altri.
Se si fosse voluto ricercare un consenso più ampio, così da non dare adito a critiche, si sarebbe potuto alzare la soglia così da garantire un accordo fra più partiti.

In ogni caso, con il sistema attuale, le opzioni in mano ai partiti politici sono due: chiamarsi fuori dalla scelta qualora la si ritenga fondata esclusivamente su lottizzazioni devianti rispetto allo spirito costituente e si ritenga il candidato un uomo di fiducia di altri partiti, oppure stare al gioco e proporre il proprio candidato, accettando la possibilità di dover turarsi il naso di fronte alle candidature irremovibili di altri.

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