Immaginiamo Putin non più nella veste un po’ corsara del pokerista che sa usare al meglio l’arma del bluff e vince sfruttando titubanze altrui, bensì come un provetto giocatore di scacchi ferocemente ambizioso e determinato a conquistare il successo nella partita più complessa della sua vita. In fondo, anche negli scacchi si tende a sfruttare eventuali debolezze avversarie, attraverso la manovra dei propri pezzi. Non necessariamente è indispensabile raggiungere subito situazioni dominanti, ma assicurarsi nel tempo – con appropriate mosse – un vantaggio di posizione, dunque di potere. La Siria è parte di questo piano che si articola su più direttrici: vedi energia e Ucraina; il contenzioso con Ankara (che vuol dire oleodotti alternativi a quelli russi); il riarmo; l’appoggio francese; l’avere innescato una sfida complicatissima sul piano militare e ancor di più su quello politico.

L’obiettivo di Putin: ridimensionare il ruolo degli Usa
La strategia di Putin nello scacchiere mediorientale è divenuto il leit motiv della geopolitica globale di questi ultimi turbolenti tempi. Titolo: la Russia torna a recitare il ruolo di Grande Potenza. Ritornello: basta con gli Stati Uniti sceriffi del mondo. Musica: la Russia vuole la pace. Combatte il terrorismo. E i disequilibri. Una colonna sonora che ricorda abbastanza quella “internazionalista” dell’Unione Sovietica, aggiornata al postcomunismo… Se la prima affermazione sa molto di propaganda (Mosca non ha i mezzi militari, finanziari ed economici di Washington), il secondo postulato è invece più che un’affermazione, un appello. Al resto del pianeta, a quei Paesi sempre più insofferenti nei confronti della politica Usa e dell’onnipotente suo braccio globalfinanziario. Su questo inquieto fronte, Putin conta di arruolare parecchi scontenti. Alleati trasversali, se non addirittura occulti, in un’ambigua ridefinizione del gioco delle parti. Non è da oggi che il capo del Cremlino persegue questo obiettivo, anzi, sono dieci anni che lo predica. Il recente dinamismo del Cremlino ha tuttavia costretto la Casa Bianca ad aggiornare il suo ruolino di marcia e a rivedere l’agenda della politica estera. Al punto da mettere in piedi un negoziato bilaterale Usa-Russia per produrre una nuova risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sulla cruciale questione dei commerci illeciti con lo Stato islamico, ormai divenuto comodo nemico di tutti, panacea di ogni crisi.

Dai raid in Siria alla strage di Parigi: l’Orso russo contro i lupi solitari
Mercoledì 30 settembre sono iniziati i raid aerei russi in Siria, tra il disappunto della Casa Bianca, le perplessità e i timori di mezza Europa. Sono trascorsi poco più di due mesi ed è successo di tutto, nel frattempo: la bomba che polverizza in volo un aereo russo zeppo di turisti reduci dalle vacanze sul Mar Rosso; gli attentati rivendicati dall’Isis a Beirut e Bamako, il tragico e apocalittico venerdì 13 novembre di Parigi (130 morti); due F-16 turchi che abbattono un Sukhoi-24 russo; le vigorose minacce di Putin contro il presidente turco Recep Tayyp Erdogan (“Non se la caverà con le sanzioni, se qualcuno pensa di cavarsela con così poco per un crimine di guerra così vile, sbaglia di grosso”). Insomma, la Turchia si pentirà “per l’affronto del jet che ha tirato giù!”). E ancora: le accuse putiniane sul coinvolgimento della famiglia Erdogan nel contrabbando di petrolio con il Califfato; le bombe alla manifestazione pacifica curda di Ankara del 10 ottobre (97 vittime); l’uccisione dell’avvocato che difende i militanti del Partito democratico dei popoli, vetrina legale del PKK (Partito dei lavoratori curdi).

Le accuse a Erdogan per snidare chi sostiene Ankara e il Califfo
Un turbine di eventi ciascuno, sotto ogni punto di vista, destabilizzante: come l’attentato di San Bernardino. Ha detto infatti Obama: “Sappiamo che l’Isis e altri gruppi terroristici stanno incoraggiando attivamente le persone in tutto il mondo e nel nostro Paese per commettere terribili atti di violenza, spesso come lupi solitari…”. Contro questi lupi solitari dell’Idra terroristica c’è l’Orso russo, è il messaggio che Putin ha recapitato all’Occidente, vediamo di snidare chi c’è davvero al fianco dell’Isis. Per Mosca e anche per molti diplomatici occidentali vi sarebbero complicità fra il governo turco e il Califfato. Qual è la tesi del Cremlino? Erdogan è sunnita. Ed è protettore dei Fratelli Musulmani. Per scalzare lo sciita Assad avrebbe consentito all’Isis di rafforzarsi. Non solo: come mai la stragrande maggioranza dei foreign fighters transita dalla Turchia prima di arrivare in Siria e in Iraq? Come mai i traffici e i commerci illegali che consentono al Califfato di incamerare solo col petrolio 500 milioni di dollari l’anno passano in gran parte lungo la frontiera fra il sud della Turchia e il nord della Siria?

Operazione Damasco: sostenere Assad per compattare il fronte di chi sostiene il principio di sovranità
Già, la Siria. Mosca aiuta Assad, e relega nel tempo il cambio di regime. Sostiene che i militanti delle “opposizioni” (sottinteso: democratiche) sarebbero in combutta con l’Isis. Ma se fosse vero, il sostegno conquistato presso l’opinione pubblica occidentale verrebbe meno, anzi verrebbero considerati degli impostori ed abbandonati al loro destino. Quindi le “opposizioni democratiche” e l’Isis, i due fronti contro Assad, non possono comunicare. In compenso, dall’arrivo dei russi, il regime siriano (“legittimo” secondo Putin) ha ripreso fiato grazie ai bombardamenti dell’aviazione russa che colpisce prevalentemente i capisaldi delle opposizioni appoggiate da europei e Usa. Però, allo stesso tempo, non è interesse di Putin dividere i ribelli, perché divisi lo sono già e l’ostilità contro Assad non basta a fare una politica comune. Al contrario, insistendo sulla legittimità del regime di Assad, la Russia si pone in una posizione sulla quale convergono altri Paesi, perché rispetta il principio di sovranità, fondamento del diritto internazionale (violato da Mosca nel caso della Crimea).

Il fronte interno: toni duri e patriottismo per dissipare i dubbi e i fantasmi afgani
I toni duri di Putin durante l’annuale discorso-fiume all’assemblea federale di giovedì 3 dicembre non devono ingannare più di tanto: erano rivolti ai russi, per rassicurarli, per ravvivarne la fierezza nazionale, per corroborare i sentimenti patriottici dicendo, ecco, la Russia è tornata ad essere forte e determinante come una volta, come è nel suo destino, non siamo rimasti a guardare, siamo intervenuti per porre fine alla guerra civile siriana, per estirpare l’erba maligna del terrorismo islamico. In realtà, il discorso, nelle intenzioni di Putin, doveva servire a dissipare dubbi e preoccupazioni. Nell’immaginario russo, infatti, l’intervento in Siria rammenta la disastrosa esperienza afgana. Sebbene il territorio dell’Afganistan sia più montuoso ed aspro, quello siriano rievoca egualmente la lotta dei poteri secolari contro gli islamisti. Questa memoria fa sì che la maggioranza dei russi approvi i raid aerei ma sia contraria ad un massiccio intervento sul terreno: si possono immaginare senza angoscia i bombardamenti dal cielo, la presenza di istruttori, la consegna di materiale bellico, ma non la presenza duratura delle truppe russe. L’obiettivo verosimile di Putin è quello di assicurare ad Assad il controllo di Damasco, delle principali città e della costa. Il resto richiederebbe investimenti attualmente insostenibili dall’economia russa, ancora vacillante per le sanzioni e i prezzi al ribasso delle materie prime.

In Europa tutti dietro Putin: raid e bombe contro l’Isis (e per controllare i flussi del petrolio)
La mossa di Putin, tuttavia, ha scatenato la corsa alla guerra di tanta Europa, rimasta alla finestra e adesso timorosa di perdere un’occasione, che è poi la sempiterna ragione che ha portato le grandi potenze ad intervenire in Medio Oriente: il controllo dei flussi petroliferi. Ha cominciato Hollande, con la sua “guerra ai barbari”, la portaerei Charles de Gaulle al largo della Siria, le roboanti dichiarazioni che “bisogna colpire forte e subito, al cuore stesso del dispositivo nemico, cioè Raqqa, la capitale dello Stato islamico. Le prime bombe francesi sono cadute domenica 15 novembre, le seconde due giorni dopo. Il primo raid ha visto operare dodici aerei (di cui 6 Rafale e 4 Mirage 2000). Ma la Francia pena a definire una strategia coerente, si ha quasi l’impressione di una guerra più verbale che totale. Comunque, alla Francia si è accodata, dapprima riluttante, la Germania di frau Merkel, che ha iniziato a fornire un timido appoggio logistico e poi si è lasciata convincere ad entrare nelle azioni d’attacco. Poteva mancare la Gran Bretagna che ha nella vicina Cipro una guarnita base militare di Akrotiri, con 8mila uomini e micidiali Tornado GR4? Venti giorni dopo la Francia, il 3 dicembre, appena la Camera dei Comuni, con una mozione che permette di estendere i raid contro l’Isis anche in Siria, ha dato il via libera,(397 voti contro 223), sono cominciati i bombardamenti di Sua Maestà: “Noi dobbiamo affrontare questo demone dell’Isis. E’ venuto il tempo di fare la nostra parte in Siria”, ha detto Hilary Benn, non senza ricorrere alla tipica retorica del patriottismo britannico.

Strategia guerrafondaia spacca l’opinione pubblica interna dei paesi
Benn è il ministro-ombra dell’opposizione laburista che si occupa di Affari Esteri, con lui altri 65 compagni di partito hanno votato la mozione, mettendo a nudo la frattura aperta dalla questione siriana all’interno dei laburisti. Putin ringrazia e sorride: impera et divide. In Gran Bretagna l’opinione pubblica è spaccata. Secondo un sondaggio pubblicato dal Times a fine novembre, il 48 per cento degli inglesi è favorevole all’intervento in Siria, ma una settimana prima la percentuale era ben più robusta, il 59 per cento. E sempre più c’è chi non perdona a Mikhail Gorbaciov d’avere affossato l’Urss. Che è quello che ribadisce, ogni volta che può, l’astuto Putin. Oggi l’Europa è squassata da mille crisi. La crisi dell’Euro. La crisi dei migranti. La crisi delle libertà minacciate dalle esigenze della sicurezza. La crisi di una pace – le tensioni in Ucraina, dove la tregua è stata violata sistematicamente – sempre più appesa ad un filo sottile. La crisi greca. La crisi del Mediterraneo. La crisi dei Balcani (Kosovo, Bosnia). La Nato.

Gli Usa dicono sì al Montenegro nella Nato per ridimensionare l’ascesa di Putin
Già. La Nato che apre al Montenegro. Podgorica pronta ad entrare nell’alleanza atlantica: sarebbe il ventinovesimo Paese. Un nuovo dispetto alla Russia. Più simbolico che concreto: 650mila abitanti, un esercito di duemila uomini. Ma un luogo di vacanze molto amato dai russi. Come hanno scritto gli analisti americani, in realtà Washington ha voluto replicare a Mosca, la Russia non ha alcun potere di veto sugli allargamenti della Nato: in lista d’attesa ci sono la Georgia, la Bosnia-Erzegovina, la Macedonia. Prima che il Muro di Berlino cadesse, la Georgia faceva parte dell’Urss e gli altri due Paesi erano nella federazione jugoslava, neutrale ma non schierata con l’Occidente. Come si vede, una partita di scacchi che procede in un crescendo di aggressività e paranoie, una guerriglia psicologica in cui si alternano esibizioni di forza (che lasciano il tempo che trovano) e pressioni politiche. Non senza gli immancabili intrighi che intorbidano le acque: pensiamo alla Turchia.

Che nel frattempo spopola: quale strategia per fermarlo?
Corteggiata dall’Ue (sempre più disunita e velleitaria) perché ponga un freno al flusso migratorio (con un contributo di 3 miliardi di Euro, mica noccioline). Ma le relazioni con Bruxelles sono sempre più complicate…ora che Putin vorrebbe aprire il vaso di Pandora delle malefatte di Erdogan. Senza dimenticare i quaranta milioni di curdi che si dividono tra Turchia, Siria, Iraq e Iran. Se l’accanita resistenza contro il Califfato rianima la speranza di uno stato unitario, la fine della tregua di fatto tra Ankara e il PKK risveglia antichi fantasmi. Insomma, varianti delle varianti, in questa intricatissima partita. Tenendo conto, come afferma Garri Kasparov – considerato il più grande scacchista della storia e fiero oppositore del presidente russo – che “con Putin non si fanno accordi: non c’è modo di trovare un compromesso che sia di mutuo beneficio”, che alternative ci sono? Affiancarlo, come Hollande? Venire a patti, come sta tentando Obama? Svelarne gli altarini nascosti, come vorrebbe Erdogan? Marcarlo stretto, come fa la Nato?

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