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Egitto, quando il giornalismo è un reato

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“Nei prossimi giorni saprò finalmente a quale destino andrò incontro. Non sono ottimista, non credo che sarà un destino di giustizia.

Non intendo scoraggiarvi, cerco solo di essere realista. Nel mio paese si è perso di vista il significato della parola giustizia.

Dopo più di 850 giorni in questo buco nero, sono in una specie di limbo: ho fatto il mio lavoro di fotoreporter e mi trovo in prigione. Perché?

Mi dispiace dovervi dire che sono diventato una persona “piena di vuoto di speranza”.  Ecco come sono io oggi.

Se resisto è per tutte le persone che stanno dalla mia parte, che non mi fanno sentire solo. Siete il mio potere, la mia energia. Sono felice di avere intorno a me persone come voi e onorato di esservi amico.

Continuiamo a gridarlo: il giornalismo non è un reato!”

Mahmoud Abu Zeid, meglio noto come Shawkan, ha trasmesso questo messaggio alle 90.000 persone che finora hanno firmato l’appello di Amnesty International per la sua scarcerazione.

Shawkan è stato arrestato il 14 agosto 2013, mentre riprendeva col suo obiettivo – per conto dell’agenzia Demotix –  il giorno più nero della recente storia egiziana, quando le forze di sicurezza dispersero una manifestazione della Fratellanza musulmana a piazza Rabaa al-Adaweya, al Cairo, uccidendo almeno 600 persone.

Qui, il suo racconto di quel giorno e di quelli successivi all’arresto.

Shawkan rischia l’ergastolo per accuse pretestuose: appartenenza a gruppo fuorilegge, possesso di arma da fuoco e omicidio. Il suo unico “reato” è aver fotografato le violenze dei militari egiziani.

Shawkan ha denunciato più volte di essere stato torturato nelle famigerate prigioni di Abu Zaabal e Tora, dove ha anche contratto l’epatite C. Per almeno 17 volte la procura generale ha negato il suo rilascio provvisorio per motivi di salute.

La prima udienza del processo contro di lui e altri 738 imputati è prevista sabato 12 dicembre.

 

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