L’esodo di siriani in fuga dalla guerra continua. Nei palazzi della diplomazia mondiale è intanto in corso un’altra partita che pare destinata, almeno sul breve periodo, a non trovare soluzione. Si tratta di quella relativa al futuro del presidente Bashar al-Assad. “Al momento nessuno parla più di Assad e del suo addio al potere”, ha detto un diplomatico americano al New York Times a fine agosto. In realtà, non si parla di un’uscita di scena di Assad perché sul tema non c’è consenso. Ma l’addio del presidente siriano è la vera questione; la premessa, verrebbe da dire, alla possibile soluzione della crisi siriana.

Il nesso tra soluzione della crisi e allontanamento di Assad è stato esplicitamente stabilito durante una visita di Barack Obama ai soldati Usa a Fort Meade, l’11 settembre. “Stati Uniti e Russia hanno un interesse strategico comune, combattere lo Stato Islamico – ha detto Obama – ma continuare ad appoggiare Assad è una politica destinata al fallimento e rischia di far crollare le speranze di una pacificazione del Paese”. Nelle parole di Obama molti hanno sentito il fastidio per il rinnovato impegno militare russo in Siria: “Moltiplicare la presenza in Siria non aiuta”, ha spiegato il presidente. Ma ancora più forte, come hanno fatto notare fonti diplomatiche americane, è risuonato l’appello a Mosca perché abbandoni il presidente siriano al suo destino.

Sul destino di Assad l’amministrazione americana ha del resto una posizione chiara – che non significa però di facile realizzazione. Gli Stati Uniti vogliono che Assad se ne vada, e al più presto. “Pensiamo che la permanenza al potere di Assad incrementi l’estremismo e infiammi le tensioni nella regione – ha detto l’inviato speciale statunitense in Siria, Michael Ratney. “Una transizione politica non è solo necessaria, per il bene del popolo siriano, ma è fondamentale per combattere l’estremismo”. Su questa posizione – l’uscita di scena di Assad – si trovano, per ragioni e interessi molto diversi, i Paesi europei, l’Arabia Saudita (che ha chiesto esplicitamente che i soldati di Assad non partecipino alle azioni militari anti-ISIS) e la Turchia.

Il fatto è che l’opzione principe, per gli Stati Uniti, non è quella che convince altri due attori fondamentali nella crisi: Russia e Iran. Quando, lo scorso 17 agosto, il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov ha incontrato il suo omologo iraniano, Mohammad Javad Zarif, il verdetto è apparso inequivocabile: continuità nell’appoggio ad Assad; richiesta che solo negoziati tra il governo siriano e l’opposizione possano deciderne il destino. “Se i nostri partner pensano che si possa chiedere l’abbandono di Assad – al termine di un periodo di interim – la risposta russa è una sola: si tratta di una posizione inaccettabile”, ha spiegato Lavrov.

Per Mosca e Teheran, del resto, la presenza di Assad è una garanzia a difesa dei rispettivi interessi. L’Iran vede Assad, insieme agli hezbollah libanesi, come uno strumento per perpetuare la propria influenza nell’area. La Russia di Putin lo considera un baluardo, l’ultimo possibile, che tenga in piedi quel che resta di apparato statale, militare, della sicurezza, nel Paese. Assad può sì a questo punto controllare circa un quinto del suo antico territorio; l’Isis ha certo conquistato sempre più posizioni, sino ad arrivare alla periferia meridionale di Damasco. Ma governo, militari, intelligence russa continuano a credere che, dopo Assad, c’è solo disordine, caos, incertezza. Il concetto è stato ripetuto molto chiaramente, e polemicamente, da una fonte diplomatica di Mosca alla stampa russa: “I nostri partner sostengono che Assad se ne deve andare. E poi cosa succede? Non c’erano terroristi in Iraq. Lo stesso in Libia. Ora lo stato libico sta crollando e i terroristi spadroneggiano ovunque”.

Ecco dunque che le opzioni sul futuro di Assad appaiono inconciliabili. Russia e Iran vogliono che il presidente resti; gli Stati Uniti continuano a chiedere che se ne vada. La situazione è ulteriormente complicata dalla frammentazione dell’opposizione siriana in una miriade di gruppi e movimenti – con in comune una sola cosa, l’avversione all’idea che Assad possa partecipare ai negoziati di pace – e dall’ostinazione con cui Assad stesso resta al suo posto. L’uomo che 15 anni fa ereditò il potere dal padre Hafez non mostra alcuna volontà di arrivare a un negoziato con i ribelli e continua a descrivere i suoi avversari come “terroristi”. Nonostante abbia ammesso di aver perso intere porzioni di territorio siriano, e di non avere la forza sufficiente a fermare lo Stato Islamico, il presidente appare sprezzante e sicuro come non mai.

Ecco dunque che il tema del futuro di Assad resta un’incognita cui la comunità internazionale non riesce a dare risposta. La mancata risposta fa crescere l’instabilità siriana e alimenta la fuga dei profughi. Una prova delle difficoltà a trovare un’uscita plausibile alla crisi è del resto dimostrata anche dalla posizione delle Nazioni Unite. L’inviato Onu in Siria, Staffan de Mistura, ha chiesto alla parti di entrare in un gruppo di lavoro che affronti “le questioni costituzionali, militari e della sicurezza”. Divisioni e chiusure rendono impossibile esaudire la richiesta. Assad resta e, per il momento, il dramma siriano continua.

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