jafar panahi
jafar panahi

Una lettera d’amore al cinema. Sono note al mondo intero le parole  del regista americano Darren Aronofsky spese lo scorso febbraio nei confronti del film ‘Taxi Teheran’ quando, in qualità di presidente di giuria, lo celebrò vincitore dell’Orso d’oro del 65° Festival di Berlino.

A ritirare il premio, naturalmente, non c’era l’autore della pellicola Jafar Panahi, dal 2010 recluso in madrepatria con il divieto non solo di viaggiare ma soprattutto di esprimersi in “opere d’ingegno artistico ed intellettuale” per 20 anni. Una sorte drammatica che accomuna il regista iraniano a una moltitudine di colleghi suoi connazionali, magari meno famosi ma altrettanto “sgraditi” al regime islamico integralista. E se è vero che per gli autentici artisti “essere privati di fare la propria arte è come essere privati della vita stessa” (sempre Aronofsky, regista libero in una patria devota al I emendamento della propria Costituzione), l’assunto aderisce completamente a Panahi, cineasta puro dallo sguardo profetico.

Il suo talento è riuscito non solo ad aggirare i divieti ma a farceli dimenticare. In altre parole, si antepone al cinema pretestuoso per aderire solidamente all’arte, e questo perché l’autore nato 55 anni fa a Mianeh, nell’estremo nord dell’Iran, è incapace di piangersi addosso. Non l’ha mai fatto, sarebbe in antitesi al suo spirito combattivo ma soprattutto al suo afflato d’artista, come ha annunciato in una dichiarazione “d’accompagnamento” al film: “Sono un cineasta. Il cinema è il mio modo di esprimermi ed è ciò che dà un senso alla mia vita. Niente può impedirmi di fare film. Per questo devo continuare a filmare, a prescindere dalla circostanze: per rispettare quello in cui credo e per sentirmi vivo”.

E il desiderio di vita, cioè di libertà, è ciò che vibra da quest’opera potente, originale, sofisticata, e così lontana da certi filmetti “a tema” dal Malpaese di presunti registi misteriosamente capaci di succhiare i fondi statali per lavori di assai scarso valore. Nessuno, specie chi tenta di fare critica cinematografica seriamente, può evitare di ravvisare l’ingegno cristallino di Panahi, intatto in Taxi Teheran come lo era nella sua filmografia “da uomo libero”, ovvero dall’esordio “in lungo” nel 1995 Il palloncino bianco (Camera d’or a Cannes) a Offside del 2006 (Orso d’argento a Berlino) passando per Lo specchio del 1997 (Pardo d’Oro a Locarno) e soprattutto per Il cerchio del 2000 (Leone d’oro a Venezia). Un cineasta che ha vinto tutto e a cui il proprio Paese ha sempre vietato la distribuzione dei film nelle sale nazionali, precludendone anche la nomination all’Oscar.

Dopo l’arresto nel 2009 e la definitiva condanna d’impedimento professionale l’anno successivo, Jafar ha comunque realizzato in gran segreto due pellicole dai titoli emblematici: This is not a film (2012) e Closed Curtain (2013). Ma la vera maturità espressiva raggiunta “in manette” coincide appunto con l’opera premiata a Berlino, la cui produzione assomiglia alla trama di un film, stavolta d’avventura. Portandosi “Teheran dentro a un taxi”, Panahi si è costruito per sé il ruolo di autista nascondendo la videocamera e riassumendo ogni ruolo della troupe, per evitare di mettere in pericolo altre vite. Solo alcuni passeggeri erano consapevoli dell’operazione, tra questi la nipotina Hana (che ha ritirato a Berlino il premio, suscitando la commozione del mondo), l’avvocatessa Nasrin Sotoudeh e Omid, il venditore di DVD.

Finito di montare le parti giornaliere, il regista nascondeva le copie in posti (addirittura città) diversi per non essere scoperto. Il film è arrivato segretamente a Berlino su dispositivo USB e se l’Iran non lo può vedere, ad oggi è stato venduto in 30 Paesi, inclusa l’Italia in cui è distribuito dalla neonata Cinema di Valerio De Paolis a partire dal 27 agosto. Dall’abitacolo del suo taxi, il regista ascolta i passeggeri, osserva, riflette e compie un miracolo di meta-cinema, arrivando quasi a un “triplice salto visivo” dal punto d’osservazione fisso della videocamera nell’auto quando filma alcuni reporter in una strada che a loro volta girano un documentario. Uno straordinario respiro di sguardo e d’intelligenza per esprimere quella libertà mai abbastanza apprezzata da chi ce l’ha.

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