“Al pubblico piace che ci sia un inizio, un po’ di confusione e un lieto fine. Ma non tutto è così scontato. E non lo è neanche la mia musica. La gente cercherà sempre di dirigerti verso le cose che le piacciono, ma se lo fai il processo creativo ristagna. E poi, quando si stancano di te, sei schedato e non puoi fare niente di diverso.”

miles-davisSo What, scritto dal professore della Columbia University John Szwed (pubblicato in Italia da Il Saggiatore, traduzione di Melinda Mele), è forse il testo più esaustivo e avvincente sulla vita fuori controllo di Miles Davis. Swed tratteggia con un ritmo a volte sincopato, a volte pervaso da emotività controllata, come era la musica del protagonista di cui scrive, la vita di una delle maggiori figure del Novecento sonoro.

Figlio di un dentista di St. Louis e di una pianista che avrebbe voluto che imparasse a suonare il violino, Davis si trasferisce a New York, suona nella banda di Charlie Parker, trova una sua identità, intraprende epocali battaglie d’amore con Cicely Tyson e Juliette Gréco, inizia la collaborazione con altri mostri sacri del jazz: Dizzy Gillespie, Gil Evans, John Coltrane, di cui, anche in vecchiaia, conserverà una foto che portava costantemente con sé fra Malibù e New York, dicendo di parlare con i loro spiriti e che questi lo consolavano e gli davano conforto.

Sregolatezze, arresti, l’infatuazione violenta per la droga, i successi planetari, da Kind of Blue a My Funny Valentine, fino ad abbracciare le innovazioni che erano state portate dal rock, con le frequentazioni di Sly & the Family Stone, James Brown e Jimi Hendrix, che porteranno all’incisione di In a Silent Way e Bitches Brew. E poi il silenzio, l’abbandono della tromba per quasi cinque anni, per poi tornare sulla scena a fianco di artisti pop e mainstream e alle influenze di compositori moderni come Karlheinz Stockhausen.

Quella che ci descrive John Szwed è il viaggio di un uomo fuori dal comune attraverso le infinite possibilità della musica, una continua improvvisazione di chi è deciso a sbagliare per poter andare avanti. È un libro di scelte, a vostre drastiche, un libro di cambiamenti.

“Miles non cambiò soltanto stili, donne e modi di vestire, ma anche identità: dal ragazzo pulito di provincia dei primi anni quaranta, diventò l’apprendista hip del bebop di fine decennio; poi il flâneur eroinomane dei primi anni cinquanta; il ribelle romantico dei tardi anni cinquanta; il simbolo dell’uomo afroamericano della fine degli anni sessanta; l’alchimista e soul man degli anni settanta; l’esiliato impazzito e rimuginante dei tardi settanta; e infine la vecchia pop star degli anni ottanta. Anche se poteva parlare del cambiamento come un’ossessione o una maledizione, lo affermava come se fosse una sorta di etica, che lo spingeva insistentemente a cercare nuovi rapporti nella musica.”

I dischi bisognerebbe comprarli, il vinile bisognerebbe riportarlo agli antichi splendori, ma è una battaglia persa contro la comoda, pigra possibilità che Internet dà, quella di digitare il nome di un artista o di un album e di viverlo immediatamente. Accontentiamoci di questo, se non altro la musica continua ad essere ascoltata.
Un mezzo utile se qualcuno volesse fare una ricerca nel variegato mondo del jazz è senza dubbio Improvviso singolare. Un secolo di jazz di Claudio Sessa, critico del Corriere della Sera e docente di Storia del Jazz presso il conservatorio di Cuneo (il libro, anche in questo caso, è stato da poco pubblicato da Il Saggiatore). Si tratta di una sorta di missione: raccontare le età del jazz. Per portarla a termine Sessa analizza gli innumerevoli sviluppi che questa musica ha avuto nella storia, dallo swing al free, passando per il bebop, il cool e le avanguardie; ci descrive i protagonisti noti e meno noti; ci svela aneddoti e prova a sviluppare analogie/sinergie con i maggiori fattori storici; prova a guidarci all’ascolto di questo complesso e affascinante mondo non solo musicale, ma anche umano, sociale, spirituale.

“Nell’improvvisazione jazzistica convivono dunque una forte esigenza di libertà individuale, un continuo confronto collettivo di idee, l’interazione con strutture prefissate a volte in maniera molto rigorosa, la necessità di rimanere coerenti con modelli espressivi e stilistici la cui fluidità non esclude regole precise. Nessun’altra tradizione improvvisativa sa essere così complessa su piani tanto diversi.”

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