CAMBRAI – Tanto pavé per nulla. Dopo la celebre pace del 1529 che mise d’accordo i grandi rivali d’allora – Francesco I di Francia, Carlo V di Spagna – ecco l’armistizio ciclistico di oggi, stilato al termine di sterili scaramucce, attacchi e blitz che non hanno prodotto alcun risultato. Nibali, Froome, Contador e Quintana sono arrivati insieme al traguardo di Cambrai. Né vinti, né vincitori. La Storia è sempre in agguato, coi suoi corsi e ricorsi – in questo caso con le sue corse, sia pure sotto i panni meno nobili ma altrettanto epici del Tour.

In soldoni: Vincenzo Nibali ha attaccato appena il Tour è entrato in Francia, alle 16 e 19, la più lunga di questo Tour (223 chilometri), una sorta di piccola Roubaix con sette tratti di selciato, tredici chilometri e 300 metri di “Inferno del Nord” del ciclismo. I suoi affondi sono stati neutralizzati ogni volta, il pavé non ha premiato né punito nessuno di questi quattro cavalieri dell’apocalisse ciclistica. Salvo il premio di consolazione destinato al corridore più combattivo.

La giuria l’ha assegnato a Nibali. La vittoria è andata al tedesco Tony Martin che ha strappato la maglia gialla dalle spalle di un condiscendente Christopher Froome: tra i due c’era di mezzo solo un secondo. In un certo qual modo, il successo di Martin è un poco italiano: il tedescone ha concluso la tappa sulla bici del compagno di squadra Matteo Trentin, l’italiano gliel’ha ceduta dopo una foratura e poi l’ha aiutato a raggiungere i migliori.

Come mai Nibali non è riuscito a scompaginare la linea Maginot – che passa da queste parti – dei suoi nemici? Sono diventati più forti e lui lo è di meno? La variante che non ha favorito Vincenzo è il clima. L’anno scorso, nella drammatica tappa del pavé, quando Nibali costruì tatticamente il suo capolavoro, sbaragliando Alberto Contador, mentre Christopher Froome dovette abbandonare, dopo due cadute disastrose, diluviava, il freddo divorava i muscoli e il maltempo fece ecatombe.

L’Inferno del Nord era davvero…infernale, la compagnia di canto del plotone disintegrata dalla fatica e dalla paura. Quest’anno, invece, appena qualche goccia, solo polvere e sudore per restare appesi all’iconografia tanto cara ai francesi. Risultato: niente selezione, nonostante vibranti accelerate degli Astana a turno, nonostante la “lepre” Lieuwe Westra mandata in avanscoperta da capitan Vincenzo. Il cittì Giuseppe Martinelli ha messo in scena lo stesso copione del 2014. Spettacolo apprezzato, però un déjà-vu. Gli altri non sono rimasti a guardare, sono saliti anche loro sul palcoscenico.

Fuor di metafora, se Nibali ha dimostrato d’essere in buona forma, forse gli è mancato un contributo più efficace da parte dei suoi uomini. Persino le generose tirate del fido Lars Boom che dodici mesi fa lo aveva pilotato con perizia e grandissimo vigore nei settori del pavé, sono apparse meno incisive. L’olandese Boom ha poi avuto un problema meccanico, e anche questo ha provocato qualche scompenso. Nella fase più cruciale, durante il tratto più lungo di pavé, quello che cominciava a Fontaine-au-Tertre e finiva a Quievy (3700 metri), Nibali aveva il danese Jakob Fuglsang a dargli una mano, troppo poco per impensierire Froome, il più reattivo, capace non solo di resistere alle accelerazioni del campione italiano, ma di rilanciare. Come a dire: caro Vincenzo, oggi ti controllo come mi pare e piace. E non era l’unico.

Stavolta, infatti, i rivali del siculo son rimasti sempre ai suoi mozzi, attenti a non perderlo di vista. La selezione c’è stata, ma non tra i migliori. Salvo lo sfortunato e nervosissimo Thibaut Pinot, appiedato due volte da foratura e bici sbagliata, tutti i migliori sono rimasti come prima. Solo Froome ha perso la maglia gialla, ma non ha fatto nulla per difenderla. Ha preferito lasciar via libera allo scatenato Tony Martin. Essere prodighi significa farsi un alleato.

Nibali di alleati per ora non ne ha. Segno che lo temono tutti. Nairo Quintana, il colombiano che ha vinto il Giro del 2014, fa corsa parallela, ma quando arriveranno le salite più toste, giocherà le sue carte. Un altro da cui guardarsi è l’americano Tejay Van Garderen, terzo in classifica, punito a Huy per “comportamento scorretto in pubblico”. Ossia, ha fatto pipì mentre correva: 50 framchi svizzeri di multa. A parte l’educazione – da capirlo: si può perdere il Tour per una pisciata a norma di regolamento – è migliorato, rispetto all’anno scorso, quando si è messo in luce e si è piazzato quinto in classifica generale.

Dunque, delusione per i falliti attacchi nibaleschi. Ma ammirazione per la perentoria progressione del tedescone Tony Martin a tre chilometri e 300 metri dal traguardo: si è sbarazzato intelligentemente dei velocisti superstiti: gente col coltello in bocca come Mark Cavendish, John Degenkolb, Simon Gerrants scudiero di Froome, senza dimenticare lo slovacco Peter Sagan e il francese Nacer Bouhanni. Li ha lasciati con le pive nel sacco. E‘ filato via ed è arrivato solo a Cambrai, tre secondi prima di Degenkolb che regolato Sagan. Di questa tappa senza feriti e senza morti, mi restano impressi due highlights, per usare il gergo della Rete, cioè due momenti topici. Emblematici di questo Tour.

Froome e Nibali hanno corso fianco a fianco, o per meglio dire, gomito a gomito, uno spiando le mosse dell’altro. Entrambi hanno rischiato di ruzzolare, spostati ruvidamente sui bordi del pavé. L’italiano, costretto ad allargare a sinistra da uno scorretto Tony Gallopin, Froome sbattuto fuori da Jacopo Guarnieri che indossa la maglia della Katusha ed è stato il migliore degli italiani in gara, settimo nella volata degli sconfitti di Cambrai. Ne vedremo delle belle. Quanto ad Alberto Contador, l’ho visto affaticato, ma è riuscito a riagganciare il gruppetto di Nibali e Froome. Più brillante Quintana.

Fabian Cancellara ha abbandonato, la caduta di ieri ha sbattuto fuori dal Tour sette corridori, compreso lo svizzero. Lanterne Rouge del plotone l’inglese Alex Dowsett, vittima di una caduta: è 191esimo, accusa 26 minuti e 4 secondi di ritardo dalla nuova maglia gialla Martin.

Segnalo un volumetto divertente, “En chasse patate”, piccolo lessico impertinente del ciclismo. L’ha scritto Erwann Mingam, 152 pagine edite dalla casa editrice Solar (12,90 Euro). Molti giochi di parole sono incomprensibili per noi italiani. I francesi sghignazzano. Quanto alle pisciate vietate, oggi è stato il turno dell’ucraino Andriy Grivko, gregario di Vincenzo. Chi sarà il prossimo urinatore? Si accettano scommesse.

In attesa, ma la pipì non c’entra (se non dopo…) mi gusto l’andouillette, squisita salsiccia di trippa cotta per ore, in modo da toglierle l’odore; specialità di Cambrai ma anche di Troyes e di un altro paio di località. Va bevuta con forti iniezioni di birra. O di champagne, ma costa di più. E poi, l’andouillette è piatto del popolo. Da queste parti è attiva una solerte confraternita dedita alla conservazione delle tradizioni culinarie del luogo (Confrérie de l’Andouillette de Cambrai) e, tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre, si svolge il concorso per stabilire la migliore andouillette della provincia, un onore inestimabile.

Per adesso, la maglia gialla del mio Tour gastronomique è sulle spalle della belga Huy, per via di un’eccellente paté di cinghiale. Ma Cambrai è lì, a un palmo di golosità. A proposito: arrivando a Cambrai sono passato davanti alla Salle Jacques Anquetil e al residence Saint-Exupery. Due miti della Francia celebrati dal grande semiologo Roland Barthes.

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