Né promossi né bocciati. Il giudizio è più severo: i bilanci dei partiti sono ancora fuorilegge. Perché la Commissione di garanzia, controllo e trasparenza – istituita con un decreto del governo di Enrico Letta convertito con Matteo Renzi a Palazzo Chigi e presieduta dal magistrato contabile Luciano Calamaro – ha stabilito che non può definire regolari i rendiconti inviati dai tesorieri, relativi al 2013. E per un motivo elementare, sfuggito forse non per disattenzione ai partiti stessi: la Commissione non dispone degli strumenti per le verifiche più accurate sui bilanci, e dunque non è intenzionata a imprimere il suo bollino di qualità. Questo spiega in sintesi la relazione che la Commissione ha inviato ai presidenti di Camera e Senato, e che il Fatto Quotidiano ha consultato: “Con nota in data 18 maggio 2015, questa Commissione ha rappresentato ai presidenti di Camera e Senato la propria impossibilità a procedere al controllo dei rendiconti con le risorse strumentali e di personale assegnate. Alla data odierna (30 giugno), pertanto, l’esame dei rendiconti non si è potuto effettuare stante la descritta impossibilità di funzionamento della Commissione nello specifico settore di pertinenza”.

Calamaro e colleghi hanno rispettato la scadenza del 30 giugno, già diluita con una proroga governativa di dicembre, ma ora provocano un gigantesco impiccio ai partiti con il documento, di fatto un’ammissione di impotenza, spedito martedì a tarda sera a Laura Boldrini e Pietro Grasso. Il quesito è automatico: il partito con il bilancio non certificato – e qui l’elenco include tutti, dal Partito democratico a Forza Italia, tranne il Movimento Cinque Stelle che non partecipa al banchetto – può accedere ai rimborsi elettorali (quest’anno di 46 milioni) e al finanziamento sino al 50 per cento delle donazioni private? Al quesito, la Commissione non risponde, anzi consegna sdegnata il dilemma ai parlamentari e, soprattutto, al governo. Invano Grasso e Boldrini hanno sollecitato con due lettere i partiti per dotare la Commissione del personale tecnico e degli interventi richiesti.

Per comprendere la genesi di questa bislacca vicenda, va raccontato il percorso accidentato di una Commissione poco conosciuta, però molto potente; una specie di autorità indipendente che i partiti scelsero per un rapido lavaggio di coscienza. Rapido e inutile. Il decreto Letta, in vigore da un anno e mezzo, ha abolito i contribuiti diretti e pubblici ai partiti (gli effetti totali si vedranno fra un paio di anni) e ha creato, appunto, la Commissione di garanzia, controllo e trasparenza che sorveglia statuti, donazioni e rendiconti. Quest’organismo è formato da cinque membri: uno designato dal primo presidente della Corte di Cassazione, uno dal presidente del Consiglio di Stato e tre dal presidente della Corte dei conti. E sono magistrati con la qualifica non inferiore di consigliere di Cassazione. Il formale atto di nomina congiunto, invece, spetta ai presidenti di Camera e Senato. Quando il documento va in Gazzetta Ufficiale, la Commissione entra in carica. In teoria, roba seria. Quando fu pensata, la politica rivendicava applausi. Poi la prima Commissione è durata pochi mesi, dimissioni di massa, proteste e confusione. Lo scorso marzo, poi, è toccato al già citato Calamaro (Corte dei conti), a Roberta Vivaldi (Cassazione), a Bruno Polito (Consiglio di Stato), Laura Cafasso e Luca Fazio, entrambi provenienti dalla Corte dei conti.

I commissari non ricevono stipendi o indennità, si riuniscono in una stanzetta della Camera, senza collaboratori, ma con il sostegno di quattro segretari prestati da Camera e Senato. Con un ritardo beffardo, mentre i tesorieri a giugno chiudevano i bilanci del 2014, la Commissione esaminava quelli del 2013 con il limite di martedì 30. In questi giorni, ansiosi per il responso dei magistrati, i partiti di maggioranza hanno proposto l’ennesima deroga: due, tre mesi, a piacere. Con l’avvicinarsi del fatidico 30 giugno, la Commissione poi ha capito che lo sforzo è vano. Allora ha comunicato la valutazione ai partiti: né promossi né bocciati, i vostri bilanci sono fuorilegge. Non ci mette la firma. E neanche la faccia.

Da Il Fatto Quotidiano del 2 luglio 2015

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