È stato almeno per il momento il concerto del 2015. C’erano circa 12mila persone, ieri sera, all’Ippodromo delle Capannelle nell’ambito del Postepay Rock in Roma ad assistere al concerto degli inglesi Mumford and Sons, che sono diventati, ormai è un dato di fatto, dopo l’incetta di premi e le tournée sold out, i nuovi Coldplay della scena musicale. Chi li considera solo un gruppo indie-folk, infatti, si sbaglia di grosso. La band di Marcus Mumford è ormai entrata di diritto nel paradiso mainstream e sarà davvero difficile scalzarla.

Dopo aver trovato la formula giusta che li ha portati al successo – ballate ruspanti provenienti da un’altra epoca, con potenti armonie vocali, i tamburi ad annunciare energiche raffiche di banjo, accompagnati dall’incedere del contrabbasso su morbidi tappeti d’organo – con il loro ultimo disco ‘Wilder Mind’ hanno voluto imprimere una svolta elettrica, contaminando la loro musica con elettronica, synth e drum machine, avvicinandosi ad altre band, in primis The National e Coldplay, ma mantenendo la loro identità. E oggi, etichettarli come gruppo musicale indie-folk è riduttivo. Sono cresciuti i Mumfords, ormai riempiono gli stadi e riescono a essere estremamente coinvolgenti, grazie all’energia che sprigionano. “È una continuazione logica di quello che siamo e che abbiamo fatto – hanno spiegato loro a chi ancora non si capacita dell’improvvisa svolta elettrica, neanche si trattasse di Bob Dylan – non siamo mai stati davvero una band folk, ora siamo solo un po’ più rock”.

Si parte con Hot Gates, singolo estratto da ‘Wilder Mind’, suonato con le luci che sono ancora basse. Poi, dopo aver pronunciato in italiano “Grazie mille, Roma, siamo qui per un party”, attaccano con I will wait, uno dei brani più conosciuti della band, che scatena una potente ondata di entusiasmo, con i 12.000 spettatori a saltare e a cantare trascinati dal crescendo della ballata. Già perché è soprattutto con i vecchi brani che il pubblico s’infiamma. E Marcus Mumford, il vero protagonista della serata, anche da dietro la batteria, cerca di accattivarselo, dedicandogli, anche con l’improvvisato ausilio di Filippo, un giovane fan che ha fatto salire sul palco e usato come traduttore simultaneo, parole d’amore: “Cara Roma, ti amiamo tanto, siete il miglior pubblico del mondo, possiamo suonare in qualsiasi posto, ma non sarà mai così bello e grandioso come a Roma”.

Le vecchie camicie in flanella e i panni da rocker convivono alla grande, con vecchi brani come Roll Away, The Cave alternati ad altri nuovi come Believe e The Wolf con la quale chiudono la serata: il successo che la band ha ottenuto col cambio di registro insegna che mutare genere non sempre è un rischio. Con una carica e una grinta tali, i Mumford and Sons potrebbero anche darsi all’hip pop. Non si sa mai.

Articolo Precedente

Da Vasco a Ligabue a Sting, quando il concerto allo stadio è minacciato dalla burocrazia locale

next
Articolo Successivo

Jim Morrison, quarantaquattro anni fa moriva la leggenda ribelle del rock

next