Potrà sembrare strano, ma chiedendo – piuttosto obliquamente – le dimissioni del sindaco Ignazio Marino, incolpevole perché inconsapevole che Mafia Capitale stava ancora lavorando nell’ufficio accanto, Matteo Renzi sta di fatto proponendo le proprie. Il sindaco non si è accorto di quello che, stando agli atti, combinavano assessori e collaboratori, e per questo potrebbe tranquillamente lasciare – magari, come è stato osservato, ricandidandosi e costruendo ex novo maggioranza e squadra di governo.

In fondo anche Papa Benedetto XVI si è dimesso quando ha sentito venir meno le sue forze, proprio nel momento in cui la Chiesa era terremotata dagli scandali. C’è però un problema. Marino poteva ignorare che la sua segretaria parlasse Salvatore Buzzi, secondo le accuse esponente con Massimo Carminati di una diade mafiosa; Matteo Renzi non poteva ignorare chi fosse Ercole Incalza, dirigente dei lavori pubblici sotto inchiesta e da poco tornato in libertà.

Oggi il ministro Graziano Delrio, già sottosegretario a Palazzo Chigi, sta smontando pezzo dopo pezzo la struttura di missione che di Incalza era la creatura e attraverso la quale sono passate le grandi opere di cui si sta occupando la magistratura fiorentina. Una struttura sopravvissuta per oltre un anno all’arrivo del Rottamatore. Delrio è esponente di un governo che ha ereditato Incalza dai precedenti e se l’è tenuto, pur conoscendone trascorsi, inclinazioni e, naturalmente, peripezie giudiziarie fino a questo momento mai concluse con una condanna. Solo quando la magistratura ha alzato il coperchio su appalti e sospetti di malaffare, l’esecutivo guidato da Renzi ha deciso di rimuoverlo. Certo, un ministro, Maurizio Lupi, ci ha rimesso metaforicamente le penne, ma le sue dimissioni sono state un parto difficile dopo che Ercole Incalza era stato l’ago della bilancia delle grandi opere.

Secondo logica bisognerebbe chiedersi se, in questo caso, ci sia stata la capacità di governo invocata nel caso di Marino. Senza dimenticare che un altro governo preferì non tenersi il discusso dominus delle opere pubbliche, semplicemente per averne considerato i trascorsi: «Quando arrivai al ministero, lo cacciai per il suo coinvolgimento in Tangentopoli», spiegò qualche mese fa Antonio Di Pietro, già ministro delle Infrastrutture del primo governo Prodi. Alla base della scelta dell’ex leader dell’Italia dei valori non c’erano sentenze di condanna. «Gli revocai quell’incarico», spiegò Di Pietro, «perché [Incalza] aveva dimostrato scarsa limpidezza, al di là dell’esito giudiziario».

Una valutazione di affidabilità è parte integrante della capacità di governo, soprattutto se riguarda la trasparenza di dirigenti e consulenti esterni. Renzi l’ha fatta tempestivamente? No, anzi, è stato necessario che si muovesse la magistratura, non una ma due volte: quando fu nominato consulente delle Infrastrutture, Incalza era già indagato per la vicenda Tav fiorentina. È vero che “distrazione” analoga è stata dimostrata, tra gli altri, dai governi Monti e Letta, ma almeno quelli non si definivano rottamatori – e comunque gli errori altrui non giustificano i propri, al massimo si può invocare un concorso di colpa. Quindi – i giochi di parole a volte sono irresistibili – non può incalzare Marino chi ha tardivamente incalzato Incalza.

Se Mafia Capitale rischia di diventare un serial istituzionale, può essere legittimo chiedere che un sindaco se ne vada. Ma può farlo solo chi, in condizioni del tutto analoghe, abbia mostrato di aver capito che la trasparenza è parte integrante dell’attività di governo.

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