Questo è un test. Leggendo con calma e facendo uno sforzo di onestà intellettuale dovreste riconoscere – alla fine – se siete d’accordo o no con quanto affermato. Io che faccio parte della ex media borghesia mi ritrovo in pieno con l’analisi politico-strategica che segue. E sono costretto a concordare con un mio vecchio amico quando mi accusa con veemenza di essere un “marxista di ritorno“, ovvero uno che mette l’economia e la politica in testa agli altri criteri di interpretazione del mondo. Che tipo di reazione provoca in voi questa dose (non massiccia) di ‘ideologia’? Ecco il testo.

Quasi cinquant’anni fa la crisi italiana era una ‘crisi di squilibrio’. L’economia italiana era cresciuta ai ritmi accelerati del miracolo economico, il grande capitale si era quadruplicato, lo stato e la politica erano rimasti indietro. Legati nel loro interclassismo alla piccola borghesia e al parassitismo della spesa pubblica, i partiti erano parte del problema, e non la soluzione.

Per una stagione, a cavallo delle lotte salariali dell’‘autunno caldo’ del 1969, balenò la possibilità che un grande sindacato unitario radicasse una forte aristocrazia operaia, che facesse da ariete per una ‘strategia delle riforme‘ guidata dai grandi gruppi del capitale privato e statale.

Fu una breve parentesi. I sindacati tornarono succubi dell’interclassismo parlamentare, le riforme restarono nel limbo del compromesso tra grande capitale e base di massa piccolo-borghese; negli anni Ottanta la ristrutturazione fu ‘mediterranea’, una modernizzazione irrigata da un fiume di spesa pubblica che ha moltiplicato il fardello del debito. Uno dopo l’altro, anche la maggior parte dei grandi gruppi è uscita di scena.

Da allora, l’unica via possibile per la borghesia italiana è stato il ‘riformismo dall’alto’ imposto dai poteri d’Europa. Lo squilibrio non è annullato, si pensi alle mosse recenti della Corte Costituzionale, ma la via è quella. Oggi la crisi iniziata nel 2008 è finita, ma sette anni di vacche magre hanno logorato i partiti chiave della borghesia in tutto il continente. Oscillano gli elettorati in Francia, in Gran Bretagna, in Spagna, in Polonia, in Grecia e anche in Italia, ma non al punto da sovvertire il consenso fondamentale europeista.

L’Unione resta strategica per il grande capitale europeo. Un’opposizione di classe all’imperialismo europeo è possibile solo a partire da quel dato di fatto: l’Europa resta l’orizzonte immediato del confronto di classe. La Ue non solo indirizza la politica imperialista contro i salari ma anche si mostra matrigna verso il nuovo proletariato immigrato, di cui pure ha bisogno impellente per mitigare il suo inverno demografico. Anche solo per questo, sono cialtroneria le favole elettorali di un ritorno all’indietro, verso le suggestioni localiste, nazionaliste, populiste o addirittura xenofobe. La battaglia è ben altra.

Personalmente, credo che i punti chiave del testo qui sopra siano due:

1) l’unica via possibile per la borghesia italiana è stato il ‘riformismo dall’alto’ imposto dai poteri d’Europa;

2) L’Unione resta strategica per il grande capitale europeo (ovvero banche e multinazionali, la cui vittoria schiacciante è agevolata da Bce/QE e TTIP).

Vi invito semplicemente a prendere atto che, se siete d’accordo, bisogna che usciamo tutti subito dal piccolo cabotaggio della melassa mediatica quotidiana, bisogna alzare il tiro e cominciare a combattere per una visione alta, conseguente e consistente della politica e dell’economia. L’obiettivo ultimo: cambiare l’Europa. La guerra quindi si fa a Strasburgo e Bruxelles, non a livello nazionale.

PS: un premio a chi riconoscerà l’origine del testo.

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