I sonni tranquilli di Tel Aviv erano divenuti beati martedì mattina, quando il New York Times postava in homepage un telo bianco e la notizia degli arresti dei mammasantissima del calcio delle tre Americhe. Tra tali tormenti una larga maggioranza dei 209 delegati al 65esimo Congresso della Fifa avrebbe dovuto esprimersi sulla mozione della Palestina, che chiedeva la sospensione di Israele dalle competizioni internazionali. Improbabile che l’iniziativa potesse avere successo e così, per una volta, ha prevalso il compromesso.
“Il bando era e rimane giusto, ma cercheremo di trovare una soluzione responsabile” ha detto il presidente della federcalcio palestinese Jibril al-Rajoub durante il suo intervento, nel quale ha comunicato la decisione dell’organizzazione di ritirare la proposta. Secondo Ramallah i vicini violerebbero sistematicamente i diritti di giocatori e società palestinesi, con restrizioni negli spostamenti e sequestri di materiale. Inoltre è ritenuta inaccettabile la presenza nei campionati israeliani di cinque squadre che hanno sede in altrettanti insediamenti illegali.

Su questi punti è stato trovato un accordo preliminare tra le due federazioni, che porterà all’istituzione di un comitato che dovrà vigilare sul rispetto della libertà di movimento dei calciatori della West Bank e dirimere la questione dei team delle colonie, la Palestina avrà anche il via libera alla costruzione di un nuovo stadio in Cisgiordania. Prossimo passo: portare all’ordine del giorno la questione del razzismo sbandierato da alcuni club della Leumit League, il Beitar Gerusalemme su tutti.

Non era per nulla scontato che Jibril al-Rajoub, salito sul palco inizialmente con un cartellino rosso da sventolare verso Tel Aviv, concludesse la sua esperienza a Zurigo con una stretta di mano nei confronti del collega israeliano Ofer Eini. La mossa, d’altra parte, va inserita in una strategia più ampia che da tempo la Palestina conduce: portare le proprie istanze all’attenzione degli organismi internazionali per strappare concessioni e guadagnare consenso nell’opinione pubblica.
Tutti soddisfatti dunque, nella speranza che già dalla prossima stagione il pallone in Palestina ritrovi un po’ di normalità. “Non è semplice fare calcio in Palestina” racconta Stefano Cusin, da poco tornato in Italia dopo aver portato le prime due coppe nella bacheca dell’Ahli Al Khalil. “Ritengo che sia ingiusto costringere un Paese a due campionati distinti perché non c’è la possibilità di viaggiare liberamente. Nella mia squadra c’erano due giocatori di Gaza che non potevano tornare a casa dopo la partita: quando esci dalla Striscia è molto complicato rientrare”.
“La maggior parte dei miei giocatori – prosegue Cusin – non poteva imbarcarsi nel vicino aeroporto di Tel Aviv e così, in occasione di trasferte internazionali, toccava perdere una giornata e spendere molti soldi per raggiungere la Giordania. Ricordo una volta in cui siamo arrivati un quarto d’ora prima del fischio di inizio per via dell’incolonnamento ai posti di blocco, un’altra volta gli arbitri giunsero con due ore di ritardo al campo. Spesso lo sport si dimostra più avanti rispetto alla politica: è il momento di rimuovere i blocchi”.

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