copyright 240Da un po’ di tempo a questa parte, mi capita di ricevere diversi messaggi da persone che lamentano il fatto di non veder riconosciuto il proprio talento artistico, o le opere faticosamente realizzate. In questi casi, è difficile rispondere in modo diretto. Da un lato credo sia doveroso perseverare, quando si è intimamente convinti di avere qualcosa da dire; dall’altro, credo si ponga oggi un problema di ordine più generale, nonché di natura radicalmente nuova.

Relativamente al primo problema (ovvero il riconoscimento dei talenti), esiste una lunga storia di fallimenti del giudizio che in qualche modo ci può consolare. Tanto per fare alcuni esempi basti pensare che: Giuseppe Verdi non fu ammesso al conservatorio di Milano (nella persona di Francesco Basily); Lang Lang fu scaricato dalla sua insegnante che lo riteneva incapace perfino di tentare un’ammissione presso il conservatorio di Pechino. Cambiando genere, vorrei ricordare che negli anni sessanta il produttore Dick Rowe profetizzò: “I gruppi con le chitarre stanno per finire” e mise sotto contratto i Brian Poole & The Tremeloes, invece dei Beatles. Bob Dylan dal canto suo, fu scaricato dalla Columbia e scrisse per la nuova etichetta, la Witmark & Sons, circa 230 nuove canzoni. L’elenco è sterminato, in ogni ambito, in ogni epoca. Una casistica scoraggiante, tale da far tornare in mente la famosa risposta che il poeta Reiner Maria Rilke diede ad una signora che gli chiedeva quand’è, che si decide di diventare artisti: “Quando si sente di non poterne fare a meno”. 

Per il passato, remoto o recente che sia, si pone dunque un problema di legittimità del giudicante, nel senso che è più che ragionevole chiedersi: chi ha mai pagato per errori così mastodontici? Perché Andrè Gide non fu mai licenziato per aver rifiutato il primo volume della Recherche di Marcel Proust? Perché Virgina Woolf poté dire impunemente dell’Ulisse di James Joyce: “Never did any book so bore me” sancendone la non pubblicazione? Perché Natalia Ginzburg e Cesare Pavese non furono pubblicamente derisi, per aver deciso di non pubblicare Se questo è un uomo di Primo Levi? Perché Guido Morselli, respinto tutta la vita (anche da Alberto Moravia) dovette morire suicida senza pubblicare nemmeno un libro? Stephen King, ricevette oltre trenta rifiuti prima di riuscire a pubblicare. E che dire di un Ingmar Bergman che non fu mai candidato all’Oscar o di un Albert Einstein rifiutato al Politecnico di Zurigo? Anche qui, c’è materiale in abbondanza…
Ancora di recente, l’antropologo Marc Augé (notissimo in Italia) conobbe una serie di rifiuti da parte di “grandi” case editrici persino per un testo come I nonluoghi, divenuto un classico della riflessione sulla postmodernità. Pubblicato dalla casa editrice Eleuthera di Milano, il testo di Augé ha avuto ben 14 edizioni (Pistoia, Dialoghi sull’uomo).

La discussione potrebbe legittimamente finire qui, ma, e vengo al secondo problema, ci troviamo a mio avviso di fronte ad una questione del tutto nuova, con la quale sarà sempre più difficile non fare i conti. Prendo spunto da un campo che potrebbe sembrare piuttosto lontano da quello artistico. Un’importante rivista scientifica americana, ha recentemente pubblicato un articolo di genetica, firmato da oltre mille autori. Com’è possibile una cosa del genere? Ha senso, una cosa del genere? La questione è stata spiegata in questi termini: nella ricerca moderna, esiste una tale rete di contatti e collaborazioni per giungere ad un risultato, che è di fatto estremamente difficile attribuire l’autorialità di quello che si produce. Non credo che questo caso sia intraducibile nel campo delle scienze umane o artistiche. Quindi, siamo proprio sicuri che degli storici che pubblicano delle storie in 5,6,7 volumi, non sarebbero stati più onesti se avessero fatto cofirmare tutti quei laureandi e collaboratori dalle cui tesi hanno attinto non poca sostanza?

Si potrebbe sostenere, che nell’arte la questione è del tutto diversa. Personalmente, credo sia solo parzialmente vero: in questo campo (forse anche a causa di un maggior tasso di narcisismo) esistono più resistenze nell’ammettere che il problema della paternità di un’opera, cominci ad affacciarsi con modalità che fra qualche anno, non saranno molto dissimili da quelle che già si propongono con forza nel campo della scienza. Si pensi al caso emblematico del cinema, dove, persino legalmente, gli autori di un film sono oltre al regista, anche il montatore, il musicista e lo scenografo. Eppure, quasi sempre, è il solo regista a raccogliere tutto il merito di un lavoro ben riuscito.

La paternità di un’opera, nonché i meriti relativi alla sua ideazione e creazione, sono concetti che, nell’età della tecnica, iniziano a mostrare confini sempre più labili; credo sia dunque oggi inevitabile cominciare a metterli in discussione, o quanto meno, a problematizzarli nel giusto verso. È il caso della pittura, della scultura e dell’architettura, discipline in cui l’apporto dell’informatica è diventato creativamente strutturale. Non c’è scultura o costruzione moderna che non venga oggi simulata e facilitata nella sua realizzazione e ideazione, da sofisticati programmi di progettazione tridimensionale dotati di numerose soluzioni modulari preconfezionate. E ancora, alcuni video d’arte visivamente molto interessanti, basati sulla dinamica dei fluidi, non potrebbero proprio esistere senza i raffinatissimi software che ne permettono la realizzazione. Chi è dunque l’artista? Il videomaker, il fisico, l’informatico, il grafico? O forse lo sono tutti?

Nel mio stesso caso, ammesso che la mia musica abbia dei meriti, mi chiedo se i software musicali di cui mi avvalgo, non svolgano in effetti una funzione creativa strutturale in assenza della quale, il mio lavoro avrebbe probabilmente esiti meno significativi. Cosa, e soprattutto chi, si cela dietro la possibilità (che oggi la tecnica mi offre) di far eseguire una mia composizione all’orchestra sinfonica di Vienna (sebbene in versione digitale) con un evidente vantaggio in termini di precisione e resa finale del suono? Una cinquantina di maestri d’orchestra, vari fonici di presa diretta e post produzione, diversi programmatori informatici, un direttore creativo. Eppure, chi ascolterà la musica, sarà portato a credere che il risultato finale, nella sua globalità, sia merito del solo compositore. Il dibattito è più che mai aperto…

Infine, tornando al problema della storia del giudizio e delle difficoltà degli artisti, sento di dover aggiungere che, se porre rimedio ai torti subiti da artisti geniali e grandi uomini del passato è semplicemente impossibile, proporre soluzioni semplicistiche ad un problema così grande sarebbe piuttosto presuntuoso. Personalmente, penso sia utile testimoniare di esperienze fatte e di eventuali correzioni possibili. In tal senso, ritengo che gli Stati Uniti d’America offrano al problema della selezione dei talenti, una soluzione molto positiva ed estremamente pragmatica. Negli USA, scuole di musica, università, centri di ricerca, non sono la lugubre fotocopia l’una dell’altra come avviene spesso in Europa: ogni struttura è infatti dotata di una propria filosofia didattica. L’artista più creativo, si avvicinerà ad università che premiano questo tipo di attitudine; uno più metodico ed esecutivo (un direttore d’orchestra o uno strumentista) graviterà verso un’istituzione che esprima metodologie pedagogiche a lui affini. Frequentare Stanford, Berkeley o Harvard, significa principalmente scegliere l’università che maggiormente si confà a certe caratteristiche personali, indole, carattere, predisposizione.

Tutto ciò, trova oggi una precisa teorizzazione nei testi dello studioso Howard Gardner che da anni ricorda come esistano per lo meno sette, otto tipi di intelligenza differente, a volte anche contrastanti tra loro. La scuola come è noto, considera esclusivamente l’intelligenza linguistica e quella logico matematica. Che ne è delle altre? Che ne è, di coloro che sono dotati di altre forme di intelligenza? Le istituzioni preposte a formare ed insegnare, non possono più trascurare questa verità scientifica acquisita. E come se un istituto di geografia, volesse continuare oggi ad insegnare tale materia agli studenti, dicendo loro che la terra è piatta.

Continua…

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