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Dovrei dirvi tutt’altro. Dovrei dirvi cosa mi ha detto dell’ISIS e di al-Qaeda, di al-Baghdadi, del califfato e dell’emirato. Di come governeranno Idlib, ora che è sotto il loro controllo, cosa intendono per sharia, e cosa sarà dei cristiani: e cosa pensano di Assad, dei prossimi negoziati, cosa degli Stati Uniti, e dell’Iran e dell’Arabia Saudita. E dei foreign fighters, naturalmente.

Perché M. è uno di quelli che fuori di qui, finirebbe in carcere. Finirebbe a Guantanamo. In Siria, per lui non è più né rivoluzione né guerra. E’ jihad.

E dovrei dirvi tutt’altro, allora. Cosa ha detto, ci esploderanno sotto casa o no?

E solo che all’improvviso, mentre parlava, si è commosso.

Mentre mi raccontava di sua madre. Di suo padre.

E io ero lì, con il mio taccuino, i miei appunti, imbarazzata: e non sapevo cosa dire – e se mai leggerà queste parole, mi scuserà per non averne avute. Per avere guardato altrove. Ma ero in imbarazzo per me stessa, non per i suoi occhi lucidi. Ero in imbarazzo perché nel costruire le storie, i reportage, ogni siriano, ogni “locale”, come diciamo sbrigativamente, cumulativamente, tra giornalisti, ha la sua funzione. Adempie un ruolo. Il rifugiato, l’estremista. L’attivista. La donna, il vecchio e il bambino. E ora, invece – all’improvviso: i personaggi tornavano persone.

I siriani tornavano uomini, invece che laici e islamisti, sunniti e sciiti. Ribelli o lealisti. Con le raccomandazioni, le ansie delle madri. I ragazzi con gli studi da finire. Con gli esami, l’adolescenza – con tutto il resto: con la vita. Uomini che non importa adesso quali siano le loro scelte, giuste o meno: uomini identici a noi. Incerti, fragili, contraddittori. E soprattutto, esausti. Uomini che arrivano da cinque anni devastanti, uomini che hanno esistenze sottosopra, di sangue e polvere, figli mutilati, foto di fratelli, in tasca, padri uccisi: e che in mezzo a tutto questo, ai bombardamenti, alla fame, alle notti sfiancate dai ricordi, dai traumi, sono chiamati a scelte complesse, scelte a cui non avrebbero mai pensato di essere chiamati. Rifondare un paese. Governare. Scelte per cui non si sentono preparati. Uomini consumati dai dubbi. E che ogni giorno, però, hanno davanti mille bivi. Alleanze, negoziati, accordi – reagire, non reagire, e come.

E per noi, invece, non sono che un ruolo. Una funzione.

Una finzione.

I sunniti e gli sciiti. I laici e gli islamisti.

Mi scuserà, se mai leggerà queste parole. Mi scuserà per non averne mai avute.

Perché l’ho incontrato perché mi spiegasse di sé. Di loro. E invece mi ha spiegato di noi. E’ la prima volta, mi ha detto, che qualcuno ascolta la mia storia.

La prima volta che sento di contare qualcosa.

M. ha 42 anni, e ancora, intatta, tutta l’aria del professore che è stato fino a ieri. Sempre elegante, sempre in giacca e camicia perfettamente abbinate. L’inglese impeccabile. Suo padre è morto che lui aveva 14 giorni. “E per mia madre, con quattro figli, l’unico sostegno è stato Omar, un cugino. Qui non è come in Europa, in cui lo Stato è al servizio del cittadino. Qui lo Stato è un presidente che sta chiuso nel suo palazzo a curare i suoi affari. Quando sei in difficoltà, non è lo Stato ad aiutarti: è la tua famiglia. Per questo poi non siamo legati al modello di governo e parlamento. Perché per noi non ha mai significato niente. L’unica cosa che lo Stato ha fatto per me, è stata arrestare Omar per affiliazione ai Fratelli Musulmani, e tenerlo in carcere per 11 anni. E poi arrestare Abd, il maestro che mi ha cresciuto come un figlio. E tenerlo in carcere per 30 anni. L’unica cosa che ha fatto, lo Stato, è stato rendermi orfano tre volte“.

Né ha mai significato niente la parola democrazia. “Perché qui non è sinonimo di partecipazione, di libertà: è sinonimo di dominio straniero. L’Egitto, il colpo di Stato che ha spodestato Mohammed Morsi, non è che l’ultimo di mille esempi. Qui non governi se vinci le elezioni. Governi se sei amico di chi comanda davvero”.

Per questo ora chiede la sharia.

La sua storia non è una storia di persecuzione. Non è mai stato arrestato, torturato. La sua è una storia ordinaria: di ordinaria irrilevanza, ordinaria indifferenza. “La legge in teoria era uguale per tutti. Però poi se eri musulmano, e povero, due cose che spesso coincidevano, ti ritrovavi sempre escluso. Dopo la laurea fui ammesso al master, fui il migliore. Ma avrei dovuto comprare libri che non potevo permettermi: e per me finì lì. Le borse di studio andavano tutte ai figli degli ufficiali. Dei notabili del regime”, ricorda. “Piccole cose, ma capivi che non contavi niente. Pregavi, ti inginocchiavi, e ti ridevano dietro: Guarda, dicevano, i sunniti hanno la testa dove gli altri hanno i piedi. Cose minime. Ma semplicemente, non eri parte della Siria”.

Così some oggi, se sei musulmano, dice, semplicemente non sei parte del mondo.

Non conti niente.

Eppure non avrebbe mai iniziato la rivoluzione. Non perché fosse con Assad: ma perché era chiaro che le manifestazioni sarebbero degenerate in scontri, dice. E in guerra. Era chiaro che la Siria sarebbe stata presto ostaggio di strategie straniere. Non voleva la rivoluzione, voleva riforme. Senza violenza. Voleva una Siria in cui tutti fossero cittadini. Nient’altro.

Cinque anni dopo, l’unica soluzione, dice, è il jihad.

Cinque anni dopo, finirebbe a Guantanamo.

E per noi è: “l’islamista”. Ma ha un nome, invece, una storia. Una madre. Ha un paese da ricostruire, e mille opzioni, davanti, mille bivi. Mille dubbi. E’ uno che quando mi ha visto leggere il Corano, mi ha detto: “Spero sarai capace di interpretarlo meglio di noi”.

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