“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. È da questi versi di Cesare Pavese che il cantautore palermitano, Antonio Di Martino, esponente di punta della classe cantautorale degli anni Duemila, ha tratto ispirazione per scrivere il suo concept album intitolato Un Paese ci vuole, incentrato sulla figura del paese, inteso oltreché come luogo geografico, soprattutto come condizione umana in estinzione. Anche se “il seme del disco – racconta Di Martino – è germogliato mentre mi trovavo a Oxaca, in Messico. Ero su un autobus che passava tra le montagne quando tutto a un tratto mi sono sentito catapultato in provincia di Enna, al centro della Sicilia. Tra i crinali delle colline attorno a me, ogni tanto intravedevo piccoli cumuli di case e poco distanti uomini sui muli, bardati con fasci d’erba e fiori. E mi sono ricordato che quando ero piccolo, passando sull’autostrada che ora è inagibile, la Palermo-Catania, vedevo questi cumuli di case e i contadini che camminavano sui muli. È stato come un viaggio nel tempo, è nata così l’idea di scrivere un disco sui paesi”. E il messaggio che viene veicolato è che “le grandi città hanno perso. L’idea di provare a costruire, nei limiti sociali, qualcosa che parta dal paese potrebbe essere un’idea che rispecchi quella che è la modernità. Mi piacerebbe che questo disco veicolasse questo messaggio di predilezione per piccoli centri più che per le grandi città”. Composto da 12 brani poetici, suonati in maniera raffinata, al disco hanno preso parte Francesco Bianconi dei Baustelle e la cantante Cristina Donà.
Antonio, questo appena pubblicato è il tuo terzo lavoro, un bel traguardo: qual è il tuo parere sull’avventura che hai intrapreso nel mondo della musica?
Quel che posso dire è che per ora sto scrivendo quello che voglio, sono abbastanza libero di trovare argomenti e modi di parlarne. Qualche giorno fa stavo dando un’occhiata alla mia discografia e tra album e copertine mi sono sentito felice. Felice perché trovo il mio percorso coerente. Mi piaceva quello che vedevo, le canzoni che ho scritto. Non c’è nulla che io rinneghi. E di questo nuovo lavoro sono molto soddisfatto. Quando sono tornato dal viaggio in Messico, ho iniziato a parlare di più con mio nonno, che per tutta la vita ha fatto il contadino e il trasportatore con il suo mulo. Dal mio paese, che è Misilmeri a Corleone e nei paesi dell’entroterra di Palermo. Mio nonno ha racconti legati alla sua vita: mi ha stimolato l’idea di parlare più di esperienze di vita legate a luoghi cittadini, esperienze legate a luoghi piccoli e ai paesi. All’inizio ho scritto dei racconti, poi ho provato a trasformarli in canzoni. Da lì in poi è nata l’idea di fare un concept sul paese.
Qual è la storia raccontata da tuo nonno che ti ha più colpito?
Nel brano A passo d’uomo, si può ascoltare la voce di mio nonno che racconta la prima volta in cui ha visto una automobile. Era in paese con i suoi amici quando tutto a un tratto spuntò un’auto che camminava a passo d’uomo. Il racconto rappresenta il collante del disco, l’idea di un cambiamento che c’è stato nel concetto di velocità. Dal mulo, che era una sorta di estensione dell’uomo stesso, in quanto è un animale che ci vede anche di notte e ha capacità sensoriali che noi umani non abbiamo, fino ad arrivare alla macchina, appunto.
Nel disco affronti anche temi riguardanti la condizione dei giovani costretti a emigrare, che cercano l’Europa ma che sono poi destinati a ritornare…
Essendo siciliano, non può non toccarmi un argomento come quello che vediamo nella vita quotidiana. Ho amici che lavorano come volontari nei centri d’accoglienza e mi raccontano delle condizioni assurde in cui questi rifugiati arrivano in Italia. Quest’idea dei paesi è legata anche a questo problema: si potrebbero rianimare paesi abbandonati a causa dei terremoti o delle impervie condizioni geografiche in cui si trovano. Certo, non sono un politico, né un sociologo, non so dare delle soluzioni a problemi così gravi, ma se vogliamo risolvere questa emergenza, bisogna trovare nuove soluzione e questa idea a mio parere potrebbe essere adatta.
C’è qualcosa che ti piacerebbe fare per la cultura in Italia?
Considerando che nel mio paese non c’è un teatro, non c’è un posto di aggregazione dove possa avvenire un concerto o uno spettacolo, la proiezione di un film o una presentazione di un libro… nel mio paese, che è commissariato per mafia, è totalmente assente la cultura, fin da quando ero piccolo non avevo punti di riferimento a livello culturale, neanche un assessore alla cultura! Una cosa che mi piacerebbe fare è partire dai paesi emarginati come il mio, e cominciare a creare le condizioni per cui possa svilupparsi un sistema culturale. A me che si sviluppi a Roma o a Milano interessa ben poco, ma se si iniziasse a costruire dei teatri, dei posti di aggregazione nei piccoli paesi sarebbe un primo passo per ricostituire un sistema culturale del grande paese Italia. Non siamo ancora arrivati all’apocalisse, ma auspico un ritorno al Rinascimento e che si riparta dai piccoli paesi. Capita che il laureato specializzato, per dire, ad Hannover venga licenziato e che ritorni in un paese della Sicilia magari per coltivare limoni… Si deve per forza ripartire da un luogo e non per forza deve essere una grande città. È un processo lento che prima o poi cambierà il sistema che i nostri padri hanno creato 30/40 anni fa. Bisogna scardinare quel principio che in economia presuppone che sia più facile proseguire la marcia verso il progresso piuttosto che tornare indietro.
Come cantautore, almeno, provi a dare un’alternativa.
Ci credo molto nella funzione che può avere la musica nel veicolare certi messaggi. Credo che la musica debba essere paladina di messaggi positivi o di provocazione. Credo che la musica debba partecipare alla vita sociale, in questo periodo storico deve avere un ruolo. Le mie non sono canzoni di protesta però, mi piace parlare in maniera poetica stimolando discussioni.
Nel disco ci sono anche due collaborazioni importanti.
Gli artisti con i quali collaborare li ho scelti in base alla mia stima che ho nei loro confronti. Prima ancora di conoscerli, stimavo molto sia Francesco Bianconi dei Baustelle sia Cristina Donà. Ammiro la loro attitudine nei confronti delle canzoni. Con Bianconi ci siamo conosciuti perché facciamo entrambi gli autori per altri cantanti. Dopo un’ora dal nostro incontro eravamo già lì che scrivevamo insieme un pezzo. Cristina Donà invece l’ho conosciuta in occasione di un concerto a Teramo. Avevo da poco finito di scrivere la canzone I Calendari, ero con Angelo il mio pianista. Ascoltandola abbiamo pensato entrambi che ci volesse una voce femminile alla Cristina Donà, così le ho inviato una email per invitarla a cantare ed è venuta.
Il disco l’hai lanciato con uno “streaming geografico” disponibile solo in alcuni paeselli.
Abbiamo geolocalizzato 300 paesi italiani e attraverso un’app abbiamo fatto sì che l’album si potesse ascoltare, con uno smartphone o tablet, solo in uno dei paesi inseriti nella lista. Questo perché è in tema con il concept del disco, e poi perché mi piaceva il fatto che questo disco venisse ascoltato in un luogo raccolto, che l’ascoltatore si prendesse del tempo perché il disco ha bisogno di essere assimilato e di tempo. Un altro motivo era per avvicinare la tecnologia alla poesia di questi paesi. E poi perché l’ascoltatore facesse un passo verso la musica, dato che oggi molto spesso si ascolta la musica in modo passivo. L’idea ha funzionato bene, molte persone hanno organizzato campeggi e sono stati in questi paesi scoprendone le bellezze e i benefici che regalano.