Se Lucio Dalla avesse fatto l’ingegnere, l’avvocato, il fornaio, il tassista, lo scienziato, il professore o l’idraulico, avrebbe avuto mille ragioni condivisibili (e almeno una non condivisibile) per nascondere dentro la propria vita privata il segreto di essere omosessuale. Avrebbe potuto tranquillamente non dirlo, servendosi di tutto il coraggio necessario per affrontare in solitudine i propri fantasmi. E poi lasciarsi cullare dalla confortevole viltà del quieto vivere.

Ma siccome ce lo ha tenuto nascosto da uomo pubblico dotato di immensa libertà (oltre che status e ricchezza) immenso è stato il suo inganno. Perfezionato dalla circostanza di essere e comportarsi da poeta, da narratore che svela le passioni, da musicista di alte e sentimentali atmosfere, cioè da artista. E sempre attento a indossarne i panni, compresa quel po ’ di trasgressione che affidava a qualche colore sgargiante delle magliette, qualche opinione non convenzionale, il baschetto, la parrucca color carota. Con l’aggravante di sollecitare in noi emozioni, ma sempre nascondendoci le proprie. Parlandoci dell’amore in generale e mai del suo in particolare, schermato dietro un equivoco. L’ipocrisia è stato il suo limite. Tanto ben nascosta da aver reso ipocrita persino la sua musica, svuotandola di senso, man mano che si arricchiva nella forma. Lo dico davvero con rammarico, avendo molto amato la sua maschera, la sua poesia, la sua musica. Specie quella a cavallo dei Settanta che esplorava le profondità del mare, le traiettorie di Nuvolari, i turbamenti delle nostre fragili passioni illuminate dai testi del grande Roberto Roversi, poeta di uomini e di sentimenti vivi. Che altro era, se non una finzione, anzi una stonatura, ogni sua ritmica inquadratura di lei e lui che si tengono per mano?

Ingannando se stesso, ha ingannato noi. E lo ha fatto fino alla fine, negandosi persino la piccola verità di un testamento che (forse) avrebbe tutelato quel Marco Alemanno che viveva con lui da otto anni e che è stato sgomberato dall’arrembaggio dei parenti come dettaglio incidentale. Non dovrebbe essere l’arte la sola chiave che dissigilla la verità? E non dovrebbe essere la verità, la sola condizione indispensabile all’arte? Magari non la verità universale, ma quella personale e spesso solitaria dell’artista? Un discorso sull’amore, qualunque discorso su qualunque amore, può dimenticarsi della persona amata? Imbrogliare sulla persona amata? Nascondere la persona amata? Tenerla sotto le lenzuola, sotto falso nome, dentro una vita di copertura? E se un artista non ha neppure il coraggio di raccontare a noi che lo ascoltiamo la verità dei versi delle proprie canzoni, che altro ha di altrettanto urgente da comunicarci? Non finisce per trasformarsi in una perpetua superficie di accordi ornamentali? In un inganno per sé, per noi, per l’arte?

Mi faccio queste domande sollecitato dall’insopportabile clima di lacrime e rimembranze – che persino a Lucio Dalla avrebbe fatto orrore – e persuaso di quanto la macchina delle celebrazioni automatiche trasformi le vite vere degli uomini, con i loro difetti, debolezze, incongruenze, in gusci vuoti. Buoni per officiare gli orrendi funerali con l’applauso, lanciare sul mercato l’inedito post mortem. E poi tornare a seppellire la salma nell’urna dell’ipocrisia, già piena di fazzoletti usati.

Marco Travaglio: ‘Il privato, la sua lezione di eleganza’

il Fatto Quotidiano, 7 marzo 2015

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