Abolire la cassa integrazione in deroga e utilizzare i beneficiari per fare ripartire l’economia italiana. Come? Con una “rivoluzione logistica” che passi attraverso i porti del Sud Italia. Questa l’idea di Ennio Forte, professore di Economia dei trasporti all’università di Napoli, esposta nel saggio La rivoluzione logistica, pubblicato dallo Svimez, l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno.

Il docente propone di sostituire l’attuale ammortizzatore sociale con un “salario base di avvio al lavoro” e indica due possibili politiche in questo senso. La prima è quella dell’utilizzo diretto della manodopera dei cassintegrati da parte dello Stato, ma per sua stessa ammissione questa scelta può essere distorsiva del mercato e incorrere in sanzioni da parte dell’Europa. Allora ecco la seconda possibilità, cioè quella di incentivare le imprese di costruzione ad assumere i beneficiari dell’ammortizzatore sociale per le lavorazioni di settore. Costo dell’operazione per le casse pubbliche, secondo stime Svimez, tra 1 e 3 miliardi di euro. Ma lo Stato potrebbe contare su un rientro pari al doppio dell’investimento.

Nel dettaglio, Forte propone di impiegare i cassintegrati in un’opera di riqualificazione dei retroporti del Sud. Con questo termine si intendono quelle strutture, integrate alle zone portuali, finalizzate agli scambi di merce tra diverse modalità di trasporto. “Trasformando le aree retroportuali – scrive il professore – si disporrà di un’ulteriore leva per uscire dalla crisi e consolidando al tempo stesso quella diffusa cultura della logistica economica che manca al Paese e soprattutto ai suoi decisori politici”.

Il punto di partenza del docente, infatti, è proprio la mancanza storica, in Italia, di reali investimenti nella logistica, cioè nelle attività organizzative e strategiche che all’interno delle aziende regolano i flussi di materiali. Altri Paesi, spiega il professore, hanno invece dato grande importanza allo sviluppo di questo settore. Un esempio su tutti è la Cina, che destina il 10% del Pil alla logistica e vede i suoi porti segnare un +10,3% di traffico medio annuo in volume. In Italia, invece, il costo della logistica è superiore dell’11% rispetto alla media europea e arriva a pesare circa 40 miliardi di euro in più a bilancio. Nel nostro Paese un esempio virtuoso c’è, secondo Forte: si tratta dell’interporto di Rivalta Scrivia, in Piemonte. Ma come riferimento per i porti del Mezzogiorno il docente guarda soprattutto all’Olanda con i suoi distripark, cioè infrastrutture dove mettere in atto “funzioni logistiche ad alto valore aggiunto” come controllo qualità, confezionamento, imballaggio, etichettatura. “Creare valore aggiunto significa, in sostanza, creare ricchezza, benessere e posti di lavoro”, è la sintesi del professore.

Ma per portare avanti un’operazione del genere, secondo il docente, è necessario un cambiamento nella nostra cultura economica e, di conseguenza, nelle scelte politiche. “La scellerata politica di decentramento industriale – si legge nel saggio – attuata in maniera indolore dalla grande e media industria italiana a partire dagli anni settanta, spesso favorita da incentivi pubblici, ha finito col trasformare parte della ‘Conf-industria’ in una ‘Confmarchi‘ dove in Italia resta il finissaggio o il perfezionamento attivo, comunque consolidando il made in Italy ‘contraffatto’ a danno dell’occupazione”. L’appello del professore a una “rivoluzione logistica”, dunque, chiama in causa direttamente il premier Matteo Renzi: “Che possa essere questa una leva… secondo Matteo?”.

Da parte sua il governo, almeno nelle intenzioni, sembra muovere nella direzione di un reimpiego della manodopera proveniente dalla cassa integrazione. A inizio febbraio, ha preso il via il progetto #diamociunamano, portato avanti da ministero del Lavoro, Anci e Forum del terzo settore: i beneficiari di ammortizzatori sociali hanno la possibilità di partecipare come volontari a progetti di utilità collettiva. Resta da capire, però, come l’esecutivo metterà in pratica un passaggio della legge delega del Jobs Act, che prevede la “individuazione di meccanismi che prevedano un coinvolgimento attivo” del soggetto beneficiario di ammortizzatori sociali “al fine di favorirne l’attività a beneficio delle comunità locali”.

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