Aldo Ciccolini ci ha lasciato. Qualche giorno fa, quasi all’improvviso, perché sebbene fosse piuttosto in là con gli anni, ne aveva quasi novanta, era ancora attivissimo. L’annullamento del concerto del 21 gennaio alla Scala aveva fatto temere il peggio, ma poi null’altro si era saputo fino alla ferale notizia.

Con Ciccolini è scomparso uno dei pianisti più ‘morali’ sulla scena, un gran signore che portava una enorme tensione etica nelle sue esecuzioni, l’etica della reverenza ai ‘sacri testi‘ musicali che voleva servire. Aveva un’idea del pianista priva di qualsiasi divismo, non ammetteva cedimenti di fronte al tributo per gli autori prescelti. Tutta la luce era per il compositore. E purtuttavia prepotente usciva la sua personalità (come è dei grandi solisti) da ogni tasto percosso della tastiera. Fuggito letteralmente dall’Italia nei primi anni ’50 si fece una carriera in Francia, venne adottato da quel grande Paese fino alla cittadinanza, e lì tra insegnamento e concertismo attivo Ciccolini scandagliò, anche quasi per filiale tributo, la scuola pianistica francese come nessuno: da Debussy a Satie (la cui integrale pianistica fu un best seller negli anni ’60 e lanciò Ciccolini nel firmamento delle star) da Massenet a Saint-Saëns, fino a Déodat de Séverac incise decine di dischi che rimangono pietre miliari. Ma il suo repertorio divenne ben presto sterminato, dall’amato Liszt, da buon allievo della scuola napoletana qual era, al grande repertorio tedesco: la sua integrale delle sonate di Beethoven rimane bellissima anche se non viene molto spesso citata e poi Schumann, Mozart… Un repertorio, il suo, in perenne allargamento, la sua curiosità non è mai stata esausta: in vecchiaia tornò su Chopin, ma registrò anche Castelnuovo Tedesco e poi Janacek, autori dimenticatissimi dal repertorio suonato e inciso da legioni di pianisti. Su tutto portava la sua grazia, il suo tocco chiaro, quasi disegnativo. Non amante degli effetti facili Ciccolini ha sempre evitato di ‘strafare’ anche nel repertorio di bravura, che pure aveva frequentato spesso: cercava sempre di mettere in rilievo la continuità e l’organicità della pagina eseguita, piuttosto che perdersi in sdilinquimenti momentanei quanto caduchi.

Qualche anno fa la Emi francese pubblicò un enorme cofanetto di 56 cd con tutte le sue incisioni fino al 1990, si può apprezzare quanto poco ricorrano le stesse opere: in pratica solo la doppia incisione dell’integrale di Satie che negli anni ’80 volle consegnare al digitale. Sarà bene rispolverare quel prezioso documento, e i cofanetti Cascavelle con l’integrale beethoveniana e altre cose mirabili, perché è l’ora della storicizzazione, ora che ci è stato sottratto al ‘live’ ed è entrato nella storia.

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