C’è un’industria in coma e da domani qualcuno proverà a staccare la spina. La corsa contro il tempo dei parlamentari governativi non servirà. Gli emendamenti del Pd al settimo decreto salva-Ilva non salveranno né l’Ilva né l’indotto. Infatti – nonostante le appariscenti promesse con il Fondo di Garanzia – gli emendamenti non prevedono alcuna iniezione di liquidità. Per questa ragione lo scenario che riguarda l’indotto Ilva “è ancora a dir poco disastroso, le imprese indebitate continuano nella loro lotta contro il tempo, le garanzie per il futuro, di queste imprese ma anche dello stesso stabilimento, sono pari a poco più che zero”. Lo dichiara il presidente di Confindustria Taranto, Vincenzo Cesareo, riferendosi alla situazione delle ditte dell’indotto Ilva che avanzano crediti nei confronti dell’acciaieria ormai da sette mesi.
Gli emendamenti del Pd, anche se passassero, non consentirebbero di pagare i debiti dell’Ilva verso le imprese dell’indotto, ma solo di erogare un nuovo prestito alle imprese creditrici, con l’effetto perverso di indebitarle ulteriormente nei confronti delle banche. È come se un lavoratore volesse ricevere uno stipendio arretrato e, invece di essere pagato, vedesse arrivare un prestito che poi dovrà restituire. E’ questo l’aspetto grottesco e surreale della vicenda. Il Pd spaccia per salvezza quello che in realtà diventa un ulteriore strattone al nodo scorsoio.
“Le modifiche proposte al decreto non sembrano andare al cuore del problema”, spiega Confindustria Taranto. E il cuore del problema sono i soldi: il decreto non contiene un solo euro. Lo avevamo già detto. Non eravamo stati creduti. Ma ora lo dice anche Confindustria Taranto, che sottolinea come il decreto, anche con gli emendamenti del Pd, “non immette liquidità nelle casse delle aziende, ma consente loro di contrarre ulteriori prestiti con la garanzia del fondo stesso”. Ulteriori prestiti che appesantirebbero “imprese già abbondantemente indebitate per far fronte alle prestazioni verso Ilva”, fa notare Vincenzo Cesareo, che guida la protesta confindustriale tarantina delle ditte dell’indotto.
Ma mentre questo fronte di protesta confindustriale locale ha assunto le forme della “flessibilità” (dopo aver però bloccato la città con la collaborazione di Cgil-Cisl-Uil sperando di suscitare attenzione), c’è un altro fronte ancora più difficile: quello degli autotrasportatori. Loro invece si sono irrigiditi. “Ilva, i tir staccano la spina”, titola oggi il Quotidiano di Puglia. Alessio Pignatelli scrive: “La situazione è degenerata dopo che l’Ilva ha fatto sapere di essere disposta a pagare acconti sulle prossime spese, nulla invece sul regresso accumulato negli ultimi mesi”.
Si apprende che se ieri erano entrati 130 tir nell’Ilva, oggi dovrebbero entrarne una trentina, da domani ancora meno, e così via. In mare intanto le navi che devono consegnare le materie prime attendono dall’Ilva i pagamenti prima di scaricarle. E’ una situazione che appare disperata.
In questa tempesta di rabbia e incertezza, l’unica cosa sicura sono i debiti dell’Ilva: oltre 2 miliardi e 900 milioni. Se fosse stata data una liquidazione di 150mila euro ad ogni operaio e chiusa la fabbrica, il debito dell’Ilva sarebbe stato inferiore, si sarebbero potuti rioccupare altrove quei lavoratori, negli ospedali sarebbero finite meno persone e negli obitori pure.
Questa storia racconta il fallimento di un’intera classe politica e sindacale. È il Vietnam della sinistra vetero-industrialista che ha definito “reazionari” i tentativi di porre un termine all’agonia. Sono stati definiti “talebani” coloro che usavano il buon senso e difendevano il loro diritto a vivere. Ma i veri fanatici sono stati quelli che hanno deciso di andare spediti contro un muro negando l’evidenza stessa.
E’ stata una follia quella di far produrre Ilva a tutti i costi, fino ad arrivare all’attuale situazione di insolvenza per precedere il fallimento. I responsabili politici di quest’epilogo disastroso hanno però lucidamente previsto che il disastro economico sarà il contribuente a pagarlo: su ogni italiano verrà scaricato un debito pro capite che ammonta a cinquanta euro a testa, dai neonati agli anziani. Duecento euro per una famiglia di quattro persone. Inoltre, così andando le cose, l’Ilva non dovrà neppure pagare i miliardi di euro di risarcimento richiesti dalle centinaia di parti civili ammesse nel processo.
Ma non tutto è perduto. Ci sarà comunque il processo nei confronti degli imputati (ad esempio i Riva e i politici) e la conseguente richiesta di risarcimento.
Adesso possiamo dire quanto sia stato sbagliato sbarrare la strada alla magistratura con sette decreti, uno peggio dell’altro. Occorreva invece applicare il principio “chi inquina paga” quando l’azienda era ancora vitale. E questo è stato impedito proprio da coloro che oggi scaricano sulla collettività i costi di un immane disastro economico, ambientale e sanitario.