L’anno trascorso è stato importante e problematico per le battaglie della comunità Lgbt. Se volessimo riassumerlo in tre parole, si potrebbe utilizzare la consueta formula “nulla di fatto”. Nonostante il cambiar verso. Nonostante il nuovo governo si sia presentato alla società tutta inserendo i diritti della gay community come qualificanti della sua azione politica. Eppure, a dispetto di tutto ciò, la legge contro l’omo-transfobia rimane ferma in Senato e delle civil partnership non si è vista nemmeno l’ombra. Questo è il quadro politico che ci portiamo nel 2015: occorrerà vedere, adesso, quanto a lungo la classe dirigente continuerà a restar sorda rispetto a specifiche richieste.

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Parallelamente, la società civile e gli altri poteri dello Stato hanno segnato progressi importanti, dalla trascrizione dei matrimoni contratti all’estero al diritto di adozione da parte del/la partner in situazione di coppia di fatto. Dai registri delle unioni civili, di valenza simbolica ma culturalmente importanti, ai pronunciamenti dei tribunali a favore dei diritti affettivi e delle coppie gay e lesbiche. Un’Italia a due velocità: quella in direzione del progresso e della civiltà; e una più medievale, fatta di chiacchiere e di circolari del Ministero degli Interni, tra scandali politici, collusioni con le mafie locali e le solite mazzette. L’Italia che non riconosce i diritti Lgbt è quest’ultima, se non fosse sufficientemente chiaro.

È stato l’anno di Conchita Wurst, che ha stravolto ogni immaginario, coniugando barba e femminilità. L’anno in cui altre nazioni hanno aperto al matrimonio egualitario (tra qualche stato americano e Scozia e Finlandia, se guardiamo all’Unione Europea). E dall’altra parte, all’opposto dell’arcobaleno – simbolo della coesistenza delle diversità – si registra il grigiore e la virulenza del sentimento omofobo non solo dentro casa nostra, con le tristi baracconate di chi legge libri in silenzio e le più preoccupanti leggi antigay in Russia, in Uganda e in qualche amministrazione locale nostrana, governata dalla solita Lega o con la complicità del solito Partito Democratico, così abile a parole a promettere il meglio quanto capace nei fatti a ottenere tutt’altro.

È stato l’anno delle scuole schedate, da parte di una Chiesa che – nonostante il restyling vaticano in atto – si configura come motore primario di omofobia, proprio a partire dalle aule: lo scandalo della curia milanese contro i progetti di educazione alle differenze dice tutto. Progetti che i soliti professionisti dell’omofobia (e della sua propagazione) riducono a una sola parola, variamente declinata: gender (dittatura del, ideologia, ecc). Ed è questo il termine che dovrà essere precipuo dell’anno che verrà. Perché il 2015 dovrà essere un anno irriducibilmente gender. Ma cosa vuol dire questo vocabolo? Cercherò di fare alcuni rapidi esempi, perché le parole descrivano le cose e non vengano usate per creare menzogne.

Gender – che altro non è che il termine inglese per “genere” – comincia a usarsi nella dicitura “gender studies”, ovvero quegli studi di tipo sociologico, psicologico, linguistico, giuridico, ecc, che indagano su come in millenni di potere maschile (e maschilista) si sia creata una società ingiusta, violenta, sessista e razzista. Questo termine, perciò, indica il contrario di tutto questo: se sei per l’eguaglianza, il rispetto, le pari opportunità, la diversità vista come ricchezza e non come elemento di discriminazione, sei gender.

Gender sono quei genitori che ti amano a prescindere dalla persona che ami. Quelli che ti giudicano a seconda di chi ami (o di chi sei) li lasciamo volentieri alle sentinelle e all’elettorato di Giorgia Meloni e Salvini, per capirci.

Gender sono quelle scuole che operano affinché non ci siano più ragazzi/e che si suicidano per omofobia. Quei giudici e quei sindaci, con lo sguardo rivolto alla Costituzione e all’Europa, che considerano le persone tutte uguali. Di tutto questo hanno paura i sacerdoti milanesi, i partiti politici di destra (e di certa “sinistra”) e coloro che stanno zitti a leggere in piedi libri di cui, con ogni evidenza, non capiscono il significato.

Il 2014 si chiude perciò tra qualche vittoria e l’amara constatazione che tanto c’è da fare. Nell’anno che verrà sarà dovere delle persone per bene, quali noi siamo, fare in modo che il nostro presente si avvicini sempre di più a quello di paesi di vecchia e nuova democrazia. Se a qualcuno non piace, può sempre emigrare in Russia o in Uganda.

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