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Soheil Arabi: la pena di morte tra diritto di parola e Facebook

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Può esserci Facebook senza libertà di parola?

Soheil Arabi, un blogger e fotografo iraniano di 30 anni, è stato condannato a morte in Iran per aver insultato il “profeta dell’Islam” su Facebook. La condanna segue il suo arresto, avvenuto a Novembre 2013, insieme a sua moglie. Arabi gestiva 8 pagine Facebook sotto diverse identità, e su alcune di queste ha ammesso, attraverso il suo avvocato, di aver offeso il profeta “senza pensare e in un precario stato psicologico”.

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La dichiarazione è chiaramente pesata legalmente sull’articolo 264 del codice penale Islamico, che “addolcisce” l’articolo 262 sulla pena di morte in caso di ingiurie religiose, affermando che, qualora venga comprovato che gli insulti siano stati detti sotto circostanze di rabbia o di errore, la pena di morte può essere convertita in 74 frustate.

Tuttavia, nonostante questa possibilità, il giudice ha comunque emanato la sentenza di morte. Questa situazione riapre la questione sull’estrema urgenza di un confronto tra la società occidentale che offre i propri servizi tecnologici in tutto il mondo, con la società islamica. E’ infatti impensabile che Facebook o Twitter restino indifferenti rispetto a queste questioni, e vi spiego perché.

La società di Mark Zuckerberg è infatti impegnata fortemente per l’espansione della propria base utenti, garantendo l’infrastruttura nei paesi in via di sviluppo. Chiaramente tutto questo viene proposto come un gesto di beneficenza, ma è soltanto una mossa industriale per essere i leader nei futuri paesi che oggi ancora non sono saturati da Facebook. Una strategia di questo genere però non può scrollarsi di dosso la necessità di un confronto anche politico e soprattutto sociale su come poi queste piattaforme possono essere usate.

E’ il momento della responsabilità in cui dobbiamo capire se la libertà di parola, i diritti umani, e il rispetto per le opinioni di una persona, sono diritti che possono essere scorporati dai social media, che dovrebbero rappresentarne la quintessenza. Può esserci Facebook laddove le persone vengono condannate a morte per le loro opinioni, anche se offensive?

Il caso Arabi rappresenta non solo un dramma umano, ma una questione sociale che non si può più rimandare.

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