Perché si vende?

Eppur si muove… Con tutti i “se” e i “ma” del caso, si preannuncia una nuova ondata di privatizzazioni che – se si dovesse prestare fede alle dichiarazioni di questi giorni – potrebbe essere di dimensioni paragonabili a quella a cavallo tra gli anni Novanta e l’inizio del secolo.

Sapremo cosa sarà successo solo alla fine, ma per ora cominciamo sia a comprendere alcuni aspetti delle politiche annunciate, sia a ragionare sulla loro adeguatezza. Intanto, piacerebbe capire in modo esplicito il fine che si intende perseguire. Le privatizzazioni possono essere viste come un modo di ottenere denaro per le casse del Tesoro, oppure come un modo di smuovere dei settori dove la concorrenza – magari già impostata e in teoria attiva –fatica a funzionare. La scelta delle imprese da mettere sul mercato e alcuni aspetti della vendita per come oggi si profila fanno intendere che la risposta corretta sia la prima: si vende per fare cassa. Ce lo dice la scelta delle imprese. Ferrovie e Poste sono imprese vere e non solo pezzi di pubblica amministrazione, hanno dimensioni effettivamente imponenti. Senza valutazioni ponderate non ha senso congetturare valori, ma parliamo di miliardi di euro, e neanche pochissimi. Credo sia una scelta obbligata: pensare di tagliare il debito pubblico solo con piccoli risparmi anno per anno mi sembra impossibile. E credo anche che – seppure queste vendite aiuteranno – serviranno comunque altri provvedimenti, se possibile ancora più incisivi.

stazione centrale milano

Ma la strada è questa. Che si venda per far cassa ce lo dice anche la decisione di mettere sul mercato quote di minoranza. È chiaro a tutti che il controllo delle imprese resterà saldamente in mano pubblica e che il fragile processo concorrenziale in atto nel settore ferroviario e in quello postale non cambieranno molto in ragione di questa operazione. E ce lo dice anche – se sarà confermata – la scelta di vendere senza ristrutturare imprese che oggi sono molto complesse (si vendono le holding, e non le singole imprese: ad esempio Fs e non Trenitalia). Quindi, nessun cambiamento nella struttura delle imprese, nessuna ulteriore separazione che avrebbe potuto fare chiarezza, avrebbe aiutato la regolazione nei segmenti ancora in monopolio e – ove presente – la concorrenza. Nulla di tutto questo.

Fretta cattiva consigliera

Sembra quindi che la fretta abbia prevalso, ed è un peccato per due ragioni.

In primo luogo, perché si perde un’occasione importante di incidere sui mercati e aiutare l’efficienza dei processi produttivi del paese. Avere un sistema postale e ferroviario migliore sarebbe nell’interesse di tutti, in particolare in un periodo di profonda crisi come quello attuale. Ovviamente, questo significa incidere in profondità in imprese – in primis, Ferrovie dello Stato – che sembrano quasi delle repubbliche autonome, fuori del controllo del Governo (quello di oggi, ma non solo). Sarebbe stato molto difficile, e per fretta sembra che si voglia semplicemente evitare il problema. Comprensibile, forse, ma non è una buona idea.

In secondo luogo, per un investitore acquistare azioni in gruppi complessi e diversificati quali Ferrovie (che ha le reti, ma anche molti servizi in concorrenza) e Poste (un forte operatore in servizi finanziari di varia natura) significa fare un salto nel buio. Si conosce il risultato aggregato delle aziende, ma solo chi ci vive dentro sa veramente cosa succede e quali siano i veri punti di forza. La scarsa trasparenza, fatale in imprese dove diversi servizi condividono le strutture, e quindi i costi, non piace a chi investe il proprio denaro.

Oltretutto, la diversificazione resterà nel futuro? Dipende da quello che il Governo dichiarerà al momento della vendita. Se prendesse l’impegno con gli investitori a non cambiare nulla, sarebbe la pietra tombale per la ristrutturazione di questi settori. Se non prendesse impegni del genere, sarebbe allora verosimile che l’Italia prima o poi seguisse la strada maestra della ristrutturazione e quindi intervenisse su Poste e Ferrovie, separando i servizi e vendendoli disgiuntamente in momenti successivi. Ma, allora, chi oggi acquista anticiperebbe i cambiamenti futuri – tutti da determinare – e quindi chiederebbe uno sconto, anche consistente. La fretta è da sempre cattiva consigliera. Oggi però il dilemma è questo: è meglio una privatizzazione affrettata o il mantenimento della proprietà pubblica così com’è ora? È questione di gusti, ma, non piacendomi nessuno dei due piatti, avrei preferito un menu un po’ più raffinato.

 

Carlo Scarpa è nato a Parma nel 1961, è professore ordinario di Economia Politica presso l’Università di Brescia, dove ha tenuto corsi di Economia politica, Economia industriale e Politica della concorrenza. Si è laureato a Parma, e ha conseguito il Dottorato di ricerca all’Università di Bologna e il D.Phil. in Economia al Nuffield College, Oxford University. Ha insegnato e svolto attività di ricerca presso le Università di Oxford, Bologna, Cambridge, Evry, York, la Johns Hopkins University, l’Università Bocconi, il Boston College, la London Business School e l’Ecole Normale Superieure di Parigi. Ha svolto attività di consulenza presso la Banca d’Italia, la Consob, l’Autorità per l’energia elettrica e il gas e per varie imprese private. E’ stato coordinatore scientifico generale di diversi progetti finanziati dalla Commissione Europea su temi di privatizzazione e di energia (tra gli ultimi “Understanding Privatisation Policies” e “Security of Energy Considering its Uncertainty, Risk and Economic implications”, in collaborazione con la Fondazione Mattei di Milano). Si occupa di problemi di economia e politica industriale, con particolare riferimento a temi di antitrust e alla regolazione di servizi di pubblica utilità, soprattutto nei settori dell’energia e dei trasporti. Redattore de lavoce.info.
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