“Elaaaaine! Elaaaine!”. L’urlo forsennato arrivava da dietro la vetrata della chiesa, e a emetterlo un giovane mingherlino, piuttosto bruttino ma caricato di una forza senza precedenti. Voleva la sposa che, da parte sua e dal basso dell’altare, alzava lo sguardo. “Andiamo via!”. “Ma è troppo tardi” replicava disperata la madre di lei, la leggendaria Mrs. Robinson. “Per me, no” decideva la figlia, appunto Elaine.

E fu così che inquadrati sul retro del pulmino giallo, Ben & Elaine andavano incontro al loro destino, verso un’America che stava violentemente mutando pelle accompagnata dalle dolci sonorità di Simon & Garfunkel. Era il 1967, così si chiudeva Il Laureato e si apriva un nuovo capitolo nella storia del cinema americano e non solo.

Mentre nel firmamento dello star system veniva lanciato, a bordo della sua Alfa Romeo Spider “Duetto”, l’antidivo Dustin Hoffman. A dirigere il miglior settimo film tra i 100 best American movies di sempre, era un 36 enne regista tedesco ebreo di origini russe migrante a New York, Mike Nichols, che due giorni fa si è spento.mike nichols 675

“Inaspettatamente”, è stato l’annuncio di ieri della quarta moglie, Danielle Soawyer, tramite l’emittente Abc. Aveva 83 anni ed è impensabile immaginare che non ci sia più. Perché il nostro debito nei suoi confronti è inestimabile: Nichols ci ha lasciato un patrimonio cinematografico di valore straordinario, a partire (ma non solo) da quel The Graduate (appunto, Il Laureato) che era la sua opera seconda e per il quale si meritò subito l’Oscar come Miglior Regista.

Il cinema era l’emanazione stessa della sua esistenza, una rincorsa alla sopravvivenza da quando, 12 enne, era rimasto orfano di padre: era il 1943 ma già dal 1939 si era trasferito con la famiglia dalla natìa da Berlino a Chicago fuggendo dalle leggi razziali. Di vero nome faceva Michael Igor Peschkowsky, suo padre era un intellettuale, amico di Nabokov e Pasternak: l’eredità culturale era imponente. Ma i primi impieghi furono umili, almeno fino al trasferimento a New York con l’accesso all’Actor’s Studio. Dopo importanti esperienze a Broadway, in cui si cimentò nelle sue prime commedie dense di pungente ironia a colpire i vizi della società di allora, scelse il cinema e a 35 anni realizzò il suo esordio: Chi ha paura di Virginia Woolf? Tredici nomination agli Oscar di cui 5 vinti, e tra questi a Elizabeth Taylor, alla sua seconda statuetta da protagonista.

Hollywood comprese immediatamente il talento di Nichols, che l’anno successivo “si consacrava” attraverso ciò che sarebbe diventato il suo capolavoro indiscusso, appunto Il Laureato, tratto dall’omonimo romanzo di Charles Webb. Il film si configurò subito quale paradigma di una rottura assoluta, tanto nella narrazione quanto nel divismo, rispetto ai canoni del classicismo hollywoodiano. E negli anni, The Graduate è divenuto un simbolo epocale a doppia mandata: dall’esterno, di una squallida middle class americana ormai divorata dalla disfunzionalità e dalle trasgressioni originate a metà dei ’ 50, dall’interno, di un totale sconvolgimento delle regole dei generi.

“Lo scarto prodotto da Il Laureato risiede soprattutto nella maniera di raccontare, nella regia che osa un adattamento drastico e radicale ai tempi e ai canoni estetici che stanno cambiando” osserva Emanuela Martini nel nuovissimo volume New Hollywood (Il Castoro) che da oggi al 32 ° Torino Film Festival accompagnerà la seconda parte dell’imponente retrospettiva Suicide is Painless: Il nuovo cinema americano 1967-1976: e non è un caso che si inizi proprio con il 1967, percepito quale “l’anno de Il Laureato”.

Dopo il cult di The Graduate, Mike Nichols ha continuato a spiazzare Hollywood, per lo più divertendola, ma sempre con un’intelligenza di rara qualità. Nella levità di Una donna in carriera (1988) c’è l’amara riflessione sul compromesso virato al femminile (oltre che una suprema Melanie Griffith), nel dramma mnemonico di A proposito di Henry (1991) con Harrison Ford, si insinua quella necessaria tabula rasa esistenziale per poter diventare persone migliori, nella follia di Piume di struzzo (1996) c’è l’omaggio a uno dei capisaldi del teatro/cinema queer (La Cage aux Folles di Jean Poiret e poi Il Vizietto di Edouard Molinaro) ma anche una delle migliori performance del compianto Robin Williams, e infine nel claustrofobico e perverso Closer (2004) c’è il suo ultimo, forse incompreso, capolavoro.

Perché “Senza verità siamo animali”, e questo l’immenso Mike Nichols lo sapeva bene.

il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2014

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