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Imperversano ormai, qui in Italia, i dibattiti sulla legalizzazione delle droghe, soprattutto quelle comunemente definite “leggere”. Se ne parla ovunque. In tv, nelle piazze, nelle scuole, nei comizi e nei convegni. Lo scontro tra chi vorrebbe che gli stupefacenti siano prodotti e venduti alla luce del sole, con tanto di scontrino e tassa sul consumo, e chi invece inorridisce solo all’idea, sembra diventato abbastanza radicale. La mia impressione però è che la folta schiera di coloro che sarebbero favorevoli a una regolamentazione della vendita e del consumo non riesca, in tutte le sue diverse varianti, a centrare bene l’unico argomento che potrebbe piegare la resistenza della parte avversa. Quello che va a colpire il nucleo chiaramente paternalistico intorno a cui ruota tutta la teoria di chi fermamente si oppone all’ingresso degli stupefacenti nei negozi. Ma andiamo con ordine, perché, come accennavo prima, il fronte dei “sì” non è per nulla omogeneo.

In prima linea ci sono quelli che distinguono le droghe “leggere” da quelle “pesanti”. E chiedono che le prime siano legalizzate perché meno dannose delle seconde. Il grado di inferiore dannosità è molto relativo, varia da araldo ad araldo di questa tesi abbastanza vaga. C’è chi ritiene le “leggere” semplicemente meno dannose delle “pesanti”, chi le considera molto meno dannose, e chi si spinge fino a negare la dannosità stessa.

Un po’ più indietro nello schieramento dei “sì” troviamo un secondo gruppo, che potremmo definire la fronda dello scontrino. Il loro ragionamento è facilmente accessibile. Viviamo in tempi di revisione della spesa pubblica. La droga è ovunque, ed eradicare il fenomeno sembra impossibile. Quindi, se dobbiamo rassegnarci a convivere con le droghe, perché non ne approfittiamo tassandone il consumo?

Esattamente di fianco al gruppo sopra citato si sono posizionati gli antagonisti della criminalità organizzata. Il loro argomento di base è altrettanto diretto e lineare. Le organizzazioni criminali si sono arricchite e continuano ad arricchirsi grazie alla vendita illegale di stupefacenti. Legalizzare la produzione e la vendita al dettaglio delle droghe gli strapperebbe di mano il core business, indebolendole considerevolmente. Quindi, cosa aspettiamo a farlo?

Nessuna di queste tre linee argomentative è però in grado, da sola, di smontare la tesi centrale dello schieramento dei “no”, e cioè che le droghe non fanno bene, e lo Stato ha il compito di impedire, tramite legge, l’accesso dei cittadini a sostanze o attività che minano la salubrità del loro stile di vita. Distinguere le droghe “leggere” da quelle “pesanti” può sembrare una mossa vincente, ma invece è un riconoscimento indiretto della validità della tesi avversa. Significa accettare il paternalismo invocato dal fronte più conservatore, riconoscendo il dovere dello Stato di sostituirsi al singolo nello stabilire cosa fa bene e cosa fa male allo sviluppo della sua persona, per poi tirare fuori le droghe “leggere” dalla zona grigia delle “cose sbagliate” sostenendo che in fin dei conti non facciano così male come le altre.

L’argomento economico, se non puntellato con altre considerazioni, è di per sé insostenibile. Dire che la diffusione di qualcosa di dannoso per la salute non va ostacolata se ciò può portare dei benefici economici è una tesi a dir poco azzardata. Se la si accoglie poi bisogna anche cedere alle richieste di chi chiede di rivedere al ribasso gli standard ambientali o quelli della sicurezza sul lavoro.

Un discorso simile vale per l’argomento “criminale”. Rispondere a chi afferma che le droghe vanno bandite perché fanno male dicendo che purtroppo dobbiamo lasciarle circolare nel mercato legale perché non c’è altro modo per indebolire le organizzazioni criminali significa ammettere che lo Stato esce sconfitto da questo confronto, e che non ha altre alternative se non quella di accettare un compromesso al ribasso.

L’unico modo per attaccare seriamente gli alfieri del “no” è rigettare la loro idea di partenza, quella che poi offre una base apparentemente stabile ai loro divieti. E cioè affermare il principio secondo cui l’individuo è libero di determinare in autonomia la propria concezione del bene, in tutte quelle scelte che non comportano un’interazione sociale. Che lo Stato non può adottare una definizione preconfezionata di cosa sia la “buona vita” e poi imporla per legge al singolo. In sostanza, l’unica libertà a cui i sostenitori del “sì” possono appellarsi è quella individuale di scegliere per se stessi anche ciò che per la maggioranza è male. Se invece, come fanno di solito quasi tutti i sostenitori del “sì”, si lascia che la controparte conduca il dibattito in un sicuro recinto paternalistico, dove da un lato c’è il bene, dall’altro c’è il male, e in mezzo ci sono le persone, poi non c’è più modo di spuntarla.

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