La drammaturgia siciliana è legata, o confinata, a pochi nomi che sono riusciti a passare Scilla e Cariddi. Certamente Scimone e Sframeli ed Emma Dante, alcune stagioni fa Davide Enia, limitatamente Tino Caspanello o Roberta Torre, recentemente Tindaro Granata. Mondi colorati e sbiaditi allo stesso tempo, di un intonaco che si sfalda, traumi familiari, una miseria che si spande. Una violenza tangibile fatta di sottomissioni e minacce, di un detto socialmente accettabile e di un’ipocrisia spessa e solida, di persiane e spie, di voci di corridoio, di una giustizia sommaria paesana, di fughe, molte volte, impossibili da compiere per salvarsi. In questo panorama un nome nuovo, i Vucciria Teatro (celebre il quadro omonimo di Renato Guttuso del ’74 che tratteggia la fiera), dal nome del mercato palermitano (formata da due attori catanesi, mentre l’attrice è appunto di Palermo) che se da una parte significa “macelleria” dalla sua derivazione francese, in dialetto locale il termine corrispondente è invece “confusione”. Due elementi che si incastrano, si friggono, si mantecano: la carne ed il caos generano la vita.

Due i testi che il giovane autore Joele Anastasi (un buon esordio per il classe ’89) ha messo su carta sotto la bandiera dei Vucciria: il nuovo venuto “Battuage” e questo, dal titolo wertmulleriano, Io, mai niente con nessuno avevo fatto (vincitore del “Roma Fringe” del “San Diego Fringe”), storia di incomprensioni su sfondo omosessuale in una piccola cittadina provinciale ed arretrata dell’isola, visto all’interno del festival “Tra Cielo e Terra“, diretto da Ciro Masella, che coinvolge molti comuni e piccoli centri umbri con grande sensibilità e fermento per il teatro.

Se il ragazzo protagonista, Giovanni, è in bianco, così come l’amica fraterna Rosaria (grande forza la giovane Federica Carruba Toscano, energia, vigore e determinazione), l’amante di lui, il maestro di danza Giuseppe, ha i pantaloni marroni, metaforicamente infangati, malati, sporchi. Dettaglio non di poco conto in tutto quest’ammasso di pudicizia e purezza, negata e taciuta, di un’innocenza mai elargita ma sempre nascosta o ferita. Il sesso come valvola di sfogo di una pentola a pressione satura, svago non ludico ma ossessivo per pareggiare i conti con il destino: il maestro di danza lo fa compulsivamente con giovani ragazzi per esorcizzare la violenza subita da piccolo dal cugino, il “nostro” per essere accettato ed amato, finalmente compreso, l’amica con più relazioni aperte per sentirsi libera, indipendente, “milanese”, lottando per non fare la fine della madre.

Con una recitazione frontale, occhio di bue su chi parla, immersi nel buio gli altri, senza che mai interagiscano le figure, sembra un lungo ricordo, ognuno con la propria versione dei fatti, un rimodellare il passato, uno spiegare il dramma esistenziale di queste anime colpevoli di vita. Una riflessione però va fatta sul grande e scivoloso tema dell’omosessualità a teatro: molte volte, almeno sulla scena, la tesi di fondo che emerge sembra essere che l’amore, la tendenza, la voglia, il desiderio verso persone dello stesso sesso sia provocato non da un’attitudine, una disposizione, un orientamento, un’inclinazione ma quanto da agenti esterni che la instradano ed istigano. Il protagonista (molto, troppo candido, naif, ingenuo e “pulito”, un cliché), una sorta di Billy Elliot, è cresciuto in mezzo ad un gineceo senza la figura paterna attorno, il coreografo è stato violentato e adesso vuol far subire ad altri lo stesso trattamento per sconfiggere i demoni. Una grande sofferenza ed un immenso dolore sembra che stiano sempre alla base dell’omosessualità; un po’ riduttivo come affresco.

Si mettono a triangolo, in una Trinità esposta e di facile lettura, con al centro il capro espiatorio che, come da copione, pagherà le pene per salvare e riportare in carreggiata anche le vite degli altri due componenti del trittico attraverso il suo sacrificio, un martirio comunque sostenuto (anche qui con troppa luminosa innocenza) con il sorriso gandhiano, irreale e favolistico, sulle labbra. Il “nostro”, l'”Io” del titolo che non aveva mai commesso atti impuri con nessuno prima di quel rapporto che lo porterà al supplizio finale, con una forzatura cristologica, è il Gesù Bambino (il personaggio addirittura si chiama “Giovanni” come il Battista) che scende a togliere i peccati del mondo, mentre ai suoi fianchi si aprono il bue e l’asinello che gli danno calore nella grotta che prima lo mette al mondo e poi lo soffoca, o Maria e Giuseppe (il vero nome nella finzione scenica del maestro di danza, un Enrico Sortino (un po’ Elio Germano) inappuntabile nel far passare con pochi gesti l’inferno e le contraddizioni che ribollono dentro al suo personaggio) che non riescono a proteggerlo dalla violenza e dal ribrezzo che si annida nelle faccende umane, così minute, sterili, spicciole, senza slancio né salvezza.

La locandina ci ricorda il Dissonorata di Saverio La Ruina, il vestito da sposa e il mito del traghetto a Messina inevitabilmente ci conduce al “Carnezzeria” della Dante; pur con alcuni appunti, un testo che apre vecchie-nuove riflessioni: la funzione principe del teatro e dell’arte.

Magione (PG) 

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