Ci sono voluti 3 anni ed una delle più complesse sfide diplomatico-mediatiche che si ricordino per vedere comparire all’Aja Uhuru Kenyatta, presidente keniota e primo capo di stato in carica alla sbarra presso una corte internazionale per crimini contro l’umanità. I fatti contestati, un fardello di reati da far venire la pelle d’oca (omicidio, spostamento forzoso di popolazioni, stupro, persecuzioni su base etnica, tortura) sarebbero stati orchestrati all’indomani delle elezioni del 2007 dal politico, figlio del primo presidente del Kenya post-coloniale, e dal suo vice Joseph Ruto, all’epoca dei fatti su schieramenti avversi: secondo la ricostruzione dei fatti avvalendosi di un’alleanza con Mungiki, una pseudo-setta criminale, Kenyatta sarebbe stato il mandante degli scontri che hanno causato la morti di quasi 1300 civili.

Questa è la storia che il pubblico ministero Bensouda dovrebbe dimostrare ma l’udienza di ieri ha segnato un’apertura de facto del processo (non lo era si è trattato, infatti, solo di un’udienza preliminare) con Kenyatta seduto al banco degli imputati dove da un anno si vede solo il vice Ruto. L’apparizione del presidente è stata sul piano politico un trionfo mentre il procedimento si è perso nei mille trabocchetti tesi dall’amministrazione africana; il processo è ad un punto morto perché la sproporzione tra i mezzi della difesa e quelli dell’accusa non fa che prolungare l’agonia di una vicenda giudiziaria che forse non decollerà mai. E il giudizio non è affrettato: provate ad indovinare chi dovrebbe fornire le prove contro Kenyatta. Si, lo stesso Kenyatta. E chiedetevi perché il caso keniota ha visto una fuga di testimoni chiave (molti hanno ritrattato, altri non hanno fatto in tempo perché morti prima. ) da processo di mafia: come può un procedimento per crimini contro l’umanità basarsi su prove raccolte da indagini che l’accusa dovrebbe reperire avvalendosi della stessa autorità che sta giudicando?

Allora la richiesta di conti correnti bancari e tabulati telefonici viene considerata “persecutoria” da parte della difesa e l’apparire in tribunale da parte del loro assistito un atto coraggioso e di lealtà che ha guadagnato il plauso di molti in Africa, dove a questo punto, Kenyatta è visto quasi come un eroe; mentre Omar Al Bashir, il dittatore sudanese, ostenta sicurezza ma teme che per colpa di quel mandato di cattura internazionale emesso dall’Aja nei suoi confronti, qualche stato amico possa prima o poi giocargli un brutto scherzo, per il il presidente keniota la situazione è ben diversa: rinuncia all’immunità (solo per 24h. Giusto il tempo di presenziare muto come un pesce all’udienza del 7) fa il suo ingresso alla Corte Penale scortato da supporter urlanti e da una trentina di politici del suo paese (pare con volo e soggiorno europeo pagati dal presidente stesso) e poi torna a casa trionfante. D’altronde lui non vuole scappare: perché dovrebbe?

La signora Bensouda, pubblico ministero del Gambia, sa bene che senza documenti e senza testimoni le resta solo il racconto di una riunione segreta, tenuta quasi 10 anni fa, dove le prime due cariche politiche del paese avrebbero deciso a tavolino, con l’aiuto di una gang di criminali di strada, di mettere a ferro e fuoco il paese dopo le elezioni del 2007 che li aveva visti sconfitti: poco per aprire un processo, praticamente nulla per ottenere una sentenza di condanna. E poi il governo Kenyatta ha fatto un lavoro certosino presso l’Unione Africana e ne ha fatto uno altrettanto efficace presso i partner occidentali, ricordando loro che guida uno dei motori economici del continente africano, un prezioso argine al terrorismo nel disastrato quadrante orientale del continente. Tutte ragioni che potrebbero deporre a favore della tesi che l’udienza a cui ha partecipato il leader keniota, potrebbe essere la prima ed ultima in vista di una possibile (o forse sempre più probabile) archiviazione.

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