Parlare in breve di uno dei più riveriti e mitizzati direttori d’orchestra degli ultimi 50 anni è molto difficile. Più difficile parlarne dopo 10 anni passati dalla sua scomparsa, perché quel mito non ha subito praticamente incrinature, senza che nel frattempo sia uscita una qualunque vera aggiunta di rilievo alla sua esigua discografia. La Deutsche Grammophon ha ristampato le sue, pochissime, incisioni in studio con i Wiener Philarmoniker, e si attende la ristampa delle, altrettanto sparute, incisioni d’opera per l’etichetta gialla.

Purtroppo Kleiber figlio è stato uno di quei musicisti che rimestano ossessivamente sullo stesso repertorio per tutta la vita, cercando un’improbabile esecuzione ‘perfetta’ che sfugge perpetuamente alla loro smania di limatura. A dar conto del suo lascito discografico si finirebbe per elencare un ben esiguo catalogo: quattro sinfonie di Beethoven, due di Brahms, un paio di Schubert, qualche poema sinfonico di Strauss, diversi valzer della famiglia Strauss, due o tre sinfonie di Mozart e pochissimo altro.

Delle opere tedesche, Rosenkavalier, Elektra, Tristan und Isolde, Der Freischtütz, l’incursione nell’operetta con Die Fledermaus, e nel repertorio italiano Otello, Bohème (entrambe mai in studio), e La Traviata. Poco davvero per un direttore che Claudio Abbado, tra i molti sostenitori del maestro tedesco-argentino, definì ‘il più grande di tutti’. Per la maniacale preparazione lo si accomuna spesso ad Arturo Benedetti Michelangeli, oltre che per il numero minimo di partiture affrontate in pubblico.

Eppure quell’aura ha una sua giustificazione, per resistere ad anni dalla scomparsa più di molti ‘miti’ che si sono dimostrati fragili e liquidi con il passare degli anni. Forse Kleiber sapeva creare una sorta di ‘bagliore’ nel suono, era capace di generare una tensione interna nelle sue orchestre, galvanizzarle in modo personalissimo, tanto che poi gli esecutori non potevano non suonare esattamente come lui desiderava.

Ossessionato dai dettagli riusciva a tornire una frase attimo per attimo in prova e soprattutto sapeva sollecitare la musicalità nei suoi professori d’orchestra, usando immagini che davano un’idea quasi tattile del suono. Esempio paradigmatico dei risultati di questa sua genialità è la sua interpretazione forse più celebrata, ovvero quella della Quarta di Brahms consegnata al disco nel 1980. La levigatezza del suono, la precisione assoluta, la qualità intrinseca della sonorità, oltretutto ricolma di dettagli entusiasmanti che fanno percepire mirabilmente la dimensione ‘verticale’ della partitura (l’opposto della tecnica ‘offuscatrice’ a pennellate opacizzanti di Karajan) ne ha fatto un classico della discografia e una delle versioni assolute di riferimento.

Il tutto ottenuto con una estrema ‘economia’ della libertà agogica; Kleiber non ha mai calcato la mano coi tempi, tenendosi scrupolosamente ad una linea che poteva essere definita mercuriale, ma mai troppo veloce da non permettere una perfetta articolazione del discorso. Nel Tristan ha saputo imporre un generale snellimento dei tempi, che ricorda molto il ‘candeggio’ a cui Clemens Krauss aveva sottoposto il Parsifal, ma in Tristan questa celerità è sempre giustificata dalla passione, dall’urgenza e dalla densità del discorso teatrale. Unica pecca di quella bellissima incisione rimane René Kollo, un Tristano senza i mezzi per seguire Kleiber e la sua visione.

Ma il suo capolavoro operistico rimane il Rosenkavalier: si possono spendere solo poche parole su questa interpretazione, l’unico confronto possibile è con l’edizione del padre, nume inquietante che lo ha intimidito per tutta la vita e sfidato implicitamente a superarlo. Alla fine Kleiber figlio è stato un gigante dimezzato proprio dall’impari lotta con un modello grandissimo e da un perfezionismo che lo lasciava senza fiato. Gli siamo grati per essere stato capace di affrontare i suoi demoni anche se meno di quanto avremmo desiderato.

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