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Carceri: perché a dirigere il Dap deve esserci per forza un magistrato?

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Alla Festa del Fatto Quotidiano, Nicola Gratteri ha detto che se fosse stato nel ministro avrebbe fatto una rivoluzione – anche economica – abolendo la Dia e pure il Dap. Cos’è quest’ultimo? È il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che gestisce la complessa macchina carceraria. Ha una mission costituzionale impressa nell’articolo 27 della nostra Carta, il quale prevede in modo inequivoco che le pene non debbano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che debbano tendere alla rieducazione.

È una delle poche amministrazioni dello Stato rimasta fortemente centralizzata. Da essa dipende il destino di circa 50.000 dipendenti (poliziotti penitenziari, direttori, educatori, assistenti sociali) e di altrettanti detenuti. Se consideriamo anche i familiari di questi ultimi, i volontari, gli avvocati, scopriamo che le decisioni del Dap incidono direttamente su oltre mezzo milione di persone. Una grande responsabilità, che richiede una grande competenza specifica, una conoscenza del complesso mondo delle carceri italiane, nonché una vocazione manageriale e una condivisione espressa delle finalità costituzionali. Tale responsabilità è da sempre stata affidata a un magistrato, molto spesso a un pubblico ministero. La scelta non sempre è avvenuta tenendo conto delle premesse sopra ricordate. Le correnti dell’Anm hanno spesso inserito tale incarico tra i tanti da spartire. Si tratta di un ruolo di grande prestigio, con prerogative finanziarie e previdenziali che lo equiparano a quello del capo della Polizia. Così, nel tempo è accaduto che figure prive di un’idea progettuale abbiano gestito il Dap e le 205 carceri italiane in modo burocratico o addirittura anti-costituzionale.

A fine maggio, il governo non ha rinnovato l’incarico al precedente capo del Dipartimento. Da allora il posto è vacante. Immagino che ciò accada anche perché il ministro della Giustizia Andrea Orlando, cui spetta la proposta di nomina, non abbia assecondato le pressioni delle correnti contrapposte. L’Italia carceraria è tuttora sotto osservazione da parte del Consiglio d’Europa. Lo sarà fino al maggio 2015. Abbiamo subito, nel gennaio del 2013, l’onta di una condanna generalizzata per trattamenti inumani e degradanti. Il nostro sistema è stato messo sotto accusa per la mancanza di dignità con la quale nei decenni precedenti abbiamo trattato le persone recluse: spazi insufficienti, carenza di cure mediche, ozio forzato, violenza strutturale. La colpa non è di chi gestiva il Dap nel gennaio del 2013 ma di tutti coloro che nel tempo hanno contribuito a creare quelle condizioni, molti dei quali al Dap non hanno dato buona prova di sé. Non si vede perché debba essere obbligatoriamente un magistrato, e ancora più specificatamente un Pm, a gestire una macchina amministrativa così complessa.

Si tratta allora di partire da un progetto per poi capire chi sia in grado di amministrarlo. Il progetto non può che essere quello coerente con le raccomandazioni europee. Su questo è già vivo un dibattito, portato avanti non solo da associazioni come la nostra ma anche da altri soggetti, quali la Cgil Funzione Pubblica o sindacati di Polizia Penitenziaria. Rivolgo quindi un appello alle correnti più sensibili della magistratura affinché facciano saltare il tavolo e vogliano orientare anche loro le scelte del governo nel nome della competenza e della piena coerenza professionale con i contenuti delle leggi italiane e delle sentenze europee. Altrimenti resterà il dubbio di un lucroso patto di spartizione.

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