A volte ci vogliono cortocircuiti e contrasti estremi per mettere in evidenza quello che già evidente era.
Al canto funebre che da ormai troppo tempo accompagna il fotogiornalismo – e che forse gli allunga la vita – fa eco la derubricazione, da parte di molti, della fotografia analogica a pura archeologia.
E allora vediamo davvero, fisicamente intendo, che effetto fa una foto ai sali d’argento collocata tra i reperti archeologici. Esperienza fatta pochi giorni or sono nel Salento, precisamente a Muro Leccese. Da quattro anni Luciano Corvaglia, uno dei massimi ‘sacerdoti’ italiani della camera oscura, vi organizza Darkroom Project, un tributo alla stampa da negativo. Dunque non la mostra di un fotografo ma la mostra…di uno stampatore.

Darkroom Project, 2014 (foto © L. Bertolucci)

Quello che rende ancora più unica tale iniziativa è il luogo, a dir poco magico, dove si svolge: un convento cinquecentesco dei Domenicani, magnificamente recuperato in un percorso di chiostri, corridoi, celle, chiese, scale, colonne, iscrizioni e reperti vari in ordine sparso.
Le grandi stampe fotografiche, tutte in bianconero e di autori diversi, vivono in quegli spazi dialogando con la dimensione del silenzio mistico, rotto solo di tanto in tanto dalle note classiche di un pianoforte a coda, suonato sull’altare della chiesa.

L’esperienza è quasi totalizzante, il risultato è una sinestesia raramente raggiunta a partire dalla fotografia. E paradossalmente, le fotografie che punteggiano quei luoghi vi appaiono perfettamente integrate, senza tempo, né analogiche né digitali, solo fotografie nella loro assolutezza e integrità. Non sono appese al muro (peraltro inviolabile dopo i restauri) ma appoggiate su appositi sostegni da terra o direttamente sui reperti, non più quadri ma preziosi “soprammobili” di un arredo inatteso.
Tutto splendido, tutto magico. Ma lo è anche perché rappresenta un unicum, un’isola, un respiro, un ritorno a quella dimensione artigianale, poetica, perfezionistica e un po’ feticistica che in molti abbiamo attraversato, tra gioia e fatica.

Darkroom Project, 2014 (foto © L. Bertolucci)

Una domanda stringente, e non certo nuova, ci alita però sul collo inseguendoci tra quelle mura: quanto questo approccio oggi ha ancora senso al di là di collezionismo, passione per oggetti e tecniche vintage, gusto per la magia alchemica insita nel processo analogico, piacere per la dimensione introspettiva e solitaria della camera oscura, fiducia atavica nel negativo e sana fisicità di scazzottate notturne con provini a contatto? Ho elencato cose molto libidinose per un fotografo, tutte ricche di emozioni – e non è poco – ma va pur ammesso quello che non tutti ancora ammettono: oggi una stampante a pigmenti di carbone può offrire una stampa in bianconero da file forse ancora più seducente di quella tradizionale argentica, la gamma tonale e la risposta di un odierno sensore supera alla grande qualsiasi negativo, e via elencando.
Dunque?

Dunque la marcia funebre vorrei intonarla alle cose che io stesso ho appena detto fin qui.
Lo dico da fotografo e lo dico ai fotografi: è davvero ora di finirla con questa competizione accademica, con l’appartenenza alle scuole di pensiero, con certi vuoti dibattiti e seminari.

Darkroom Project, 2014 (foto © L. Bertolucci)

Mi si dirà che no, il mezzo è il messaggio, e poi c’è l’inconscio tecnologico, e che oggi la fotografia o è social o pezzo unico, eccetera. Tutto ciò è importante, ma riguarda la formazione e viene prima, in attesa di scoprire che la fotografia è “solo” fotografia: per favore torniamo a farla – o meglio a prenderla – e che sia buona, usando i mezzi che vogliamo senza parlarne.
Parleranno i risultati e tanto basta. 

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