“La polizia di Ferguson ha appena giustiziato mio figlio”. Si è presentato così Louis Head, con questa frase incisa su un cartello, alla veglia per l’uccisione del figlio Michael Brown. Il ragazzo, diciotto anni, aveva appena finito le superiori e si era iscritto all’università. È stato ucciso da un poliziotto di Ferguson, sobborgo di Saint Louis, Missouri, in uno scontro su cui è stata aperta un’inchiesta. La sua morte ha scatenato proteste e reazioni, sino a incidenti e saccheggi, nella comunità afroamericana della città. Perché Michael, come tanti altri adolescenti ammazzati nelle città americane, era nero. 

Non sono ancora chiari i dettagli che hanno portato all’uccisione di Brown, ed è per questo che il capo della polizia di Ferguson ha chiesto un’indagine indipendente. Secondo una prima, parziale ricostruzione, fatta dalla polizia locale, il ragazzo camminava in una strada di Ferguson con un amico poco dopo mezzogiorno di sabato 9 agosto. È stato avvicinato da una macchina della polizia, da cui è uscito un agente, che ha chiesto a Michael di entrare nel veicolo. Di fronte al rifiuto del ragazzo, sarebbe partita una colluttazione, con Brown che avrebbe cercato di impadronirsi della pistola dell’agente. Almeno un colpo di pistola sarebbe stato sparato durante lo scontro tra i due, all’interno del veicolo. Il ragazzo avrebbe cercato di fuggire, prima di essere raggiunto dai colpi mortali dell’agente. 

“È una versione difficile cui credere”, ha detto Antonio French, consigliere municipale di St. Louis. La ricostruzione della polizia lascia infatti aperte molte domande. Perché Michael è stato fermato dall’agente? I genitori dicono che il ragazzo si stava dirigendo a casa della nonna quando la macchina della polizia lo ha bloccato. E quanti colpi sono stati sparati dall’agente? In un primo momento la polizia ha detto che Michael è stato ucciso con un solo colpo di pistola, ma testimoni che hanno visto il corpo, freddato a circa 10 metri del veicolo, parlano di diversi colpi di arma da fuoco. Perché c’era bisogno dunque di sparare colpi ripetuti? Quale minaccia poteva costituire un adolescente in fuga, completamente disarmato? Sono le risposte cui dovrà cercare di rispondere l’agente protagonista dello scontro, di cui non sono state rivelate le generalità e di cui si sa solo che è in servizio da sei anni. 

La comunità afroamericana di Ferguson – una cittadina di 20 mila persone nella cintura operaia di St. Louis, quartier generale della Emerson Electrics ma con una povertà diffusa, che riguarda quasi il 20% della popolazione – ha comunque subito mostrato di non credere alla versione ufficiale. In decine si sono riversati davanti alla sede della polizia, urlando frasi come “Non sparate! e “Vogliamo delle risposte!”. Una veglia di protesta è stata organizzata domenica, il giorno successivo alla tragedia, proprio nel luogo dove Michael è stato freddato, alla presenza dei genitori. La gente ha lasciato orsacchiotti e palloncini, ha cantato “No Justice, No Peace”, di fronte a decine di poliziotti in tenuta antisommossa con i cani a controllare la folla. In molti hanno scattato foto, pubblicate poi sui social media insieme ad altre foto, vecchie di molti anni, che mostrano folle di neri controllati dai cani della polizia nel Sud razzista e segregazionista delle leggi Jim Crow. 

Una parte dei manifestanti ha anche attaccato alcune macchine della polizia e saccheggiato un distributore della “QuikTrip” e altri centri commerciali della zona. “Invitiamo tutti i cittadini a restare lontano dalla scena del crimine in modo che non ci siano altri feriti”, ha detto in una dichiarazione Ester Haywood, presidente della sezione locale della NAACP, l’organizzazione che difende i diritti civili degli afroamericani. La tensione razziale, a Ferguson, era del resto ben avvertibile anche prima dell’assassinio di Brown. La città è in gran parte nera, ma ha un sindaco, un consiglio comunale e i vertici cittadini quasi totalmente bianchi. Proprio nel tentativo di mantenere la calma ed evitare ulteriori incidenti, il sindaco James Knowles III ha chiesto l’istituzione di una commissione di inchiesta e invitato i cittadini di Ferguson a mantenersi “costruttivi”.  

Inevitabilmente, la morte di Michael Brown riporta alla memoria altri casi di adolescenti neri uccisi in modo poco chiaro. Anzitutto Trayvon Martin, il diciassettenne freddato dal vigilante di una comunità cintata della Florida perché, con la sua felpa e il suo cappuccio, era stato ritenuto sospetto. L’assassinio di Martin, George Zimmerman, è stato sollevato di ogni accusa e rilasciato. Tra gli altri numerosi episodi di neri uccisi nelle strade americane dalla polizia c’è stato, recentemente, anche il caso di Eric Garner, un venditore di sigarette di contrabbando, asmatico, catturato dagli agenti di New York e soffocato a morte dopo una colluttazione.  

Michael Brown, dicono gli amici, era in una fase felice della sua vita. Si era appena diplomato alle superiori ed era stato ammesso al Vatterott College. La madre, alla veglia di domenica, ha detto: “Mi avete preso mio figlio. Non sapete quanto è stato difficile per me farlo restare a scuola e farlo diplomare? Sapete quanti neri si laureano? Non molti. Perché li trascinate giù, a questo livello, e alla fine loro sentono che non hanno nulla per cui vivere. Sono riusciti a strapparlo da me, comunque”.

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