I libri si possono dividere in tre categorie: quelli che non riesci a finire; quelli che non vedi l’ora di finire; quelli che non vorresti finissero mai. Questi ultimi sono quelli che quando li finisci, ne rileggi dei passi, li accarezzi e poi li posi al loro posto in libreria ed ogni tanto il tuo sguardo ci si sofferma sopra. Come vecchie amanti. A quest’ultima categoria per me rientrano a pieno diritto i libri di Italo Calvino. Quelli della trilogia I nostri antenati, certo, ma anche Marcovaldo. Perché Marcovaldo è il cittadino che sa vedere ed amare la natura che lo circonda:
“Aveva questo Marcovaldo un occhio poco adatto alla vita di città: cartelli, semafori, vetrine, insegne Luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, mai fermavano il suo sguardo che pareva scorrere sulle sabbie del deserto. Invece, una foglia che ingiallisse su un ramo, una piuma che si impigliasse ad una tegola, non gli sfuggivano mai: non c’era tafano sul dorso d’un cavallo, pertugio di tarlo in una tavola, buccia di fico spiaccicata sul marciapiede che Marcovaldo non notasse, e non facesse oggetto di ragionamento, scoprendo i mutamenti della stagione, i desideri del suo animo, e le miserie della sua esistenza”.
Marcovaldo è costituito da venti novelle per bambini (ma non solo). Pensate che bello sarebbe se fosse letto ed insegnato nelle nostre elementari e medie! Marcovaldo fu magistralmente interpretato da Nanny Loi nella trasposizione televisiva che ne fece la Rai, quando ancora svolgeva servizio pubblico.
Calvino era intriso di razionalismo, ma anche di un malinconico senso del limite. In una delle ultime interviste che rilasciò, egli disse:
“Tutto quello che abbiamo ci può essere tolto da un momento all’altro. Con questo goderlo, non dico mica di rinunciare a niente. Ma sapendo che tutto quello che abbiamo può sparire in una nuvola di fumo“.