Gaetano Pesce sta al design un po’ come Luca Ronconi sta al teatro: è un’istituzione, occupa un capitolo centrale nella piccola storia di questa materia, è un grande classico mediamente conosciuto anche dal grande pubblico (o sono riconoscibili i suoi lavori) e quando si muove costa tanto. In questi giorni ha inaugurato al MAXXI una sorta di retrospettiva sul suo lavoro, anche se lui stesso sostiene che il pensiero sul passato lo infastidisca un po’ e che è raro che si guardi indietro. Una affermazione bella coraggiosa per un 75enne che nel corso della sua carriera ha ricevuto numerosissime e continue attestazioni di fiducia, riconoscimenti e lusinghe da parte di aziende, musei e  mecenati con cui si è confrontato, dando l’impressione di poter fare più o meno tutto e con i mezzi di cui aveva bisogno. E con una vita privata che lo confermerebbe, ieri spesa in giro per il mondo con i grandi, e oggi con la piccola Fontessa, sua figlia di otto anni. Uno che guarda al futuro e che, nonostante un segno così parlante e riconoscibile nel suo percorso, non ha smesso di osare.

Alcuni pezzi in mostra sono mitici – come la Up 5&6”, la poltrona/icona a forma di donna, creata da Gaetano Pesce nel 1969 per denunciare la condizione femminile e qui riproposta in una nuova versione macroscopica alta 7 metri – altri hanno una storia che possiamo capire che valga la pena ancora di spiegare e mettere insieme per il pubblico. Ma siamo sicuri che in questo momento questa mostra fosse una priorità? Ora, forse in un Paese normale, con un rapporto sano con la propria storia e con un museo del design nazionale permanente che la ospita, ne celebra le icone, e si offre alla contemplazione di un pubblico trasversale, si troverebbe giustamente ancora la sede (già qualche anno fa la Triennale di Milano si era occupata bene di quest’autore) per spiegare il lavoro dell’iniziatore di un genere colto e significativo di design arte, destinato ad avere molte copie e pochi veri eredi. In un Paese con un plafond che si spalanca davanti alle spese culturali, allora sì, forse ci sarebbero spazio e risorse per raccontare, accanto al presente che si fa strada, anche e ancora la storia che lo informa. E non è solo una questione di piccolo e nuovo: in un Paese che superasse gelosie ed autarchie e importasse dall’estero anche le grandi mostre di design, che arrivano in Italia spesso solo nei cataloghi comprati su Amazon, se avanzassero soldi, allora avrebbe senso spenderli per chi vale e piace e si vende forse anche facilmente. Ma questo Paese non è l’Italia, che troppo spesso fa ancora i muscoli col design e i suoi grandi nomi, ma già da qualche tempo, sotto sotto, nasconde tessuti molli.

“Il tempo della diversità” si chiama questa mostra, a cura di Gianni Mercurio e Domitilla Dardi curatrice per il Design del MAXXI Architettura, e forse anche un po’, possiamo immaginare, a cura di Pesce stesso. E questo sì, è un titolo giusto che racconta un tema davvero centrale di questi ultimi tempi: il design italiano, aziende in testa, ha finalmente capito che la standardizzazione, lo status e i modelli aspirazionali degli anni Novanta che fino a qualche tempo fa soddisfacevano il portafoglio di un cliente che voleva dire “ce l’ho anch’io”, ora non funzionano più. Ora il pubblico vuole dire “ce l’ho solo io” e spesso questa personalizzazione si consuma in una variazione del processo produttivo, un intervento manuale e quindi sempre diverso, un colore o un dettaglio fatti su misura, un errore o una casualità o un’imperfezione su cui si misurano le differenze. Ecco, questo Pesce lo fa a uno standard altissimo e unico da tanti anni.

Ma va detto che la vera “diversità dei tempi”, sempre al MAXXI, sempre in questi giorni, si celebra forse di più in qualche stanza più in là, nella piccola mostra “Design destination”, a cura di Domitilla Dardi con sette giovani designer italiani che hanno completato la loro formazione a Eindhoven e hanno scelto l’Olanda come patria professionale. In mostra sono esposti i loro progetti inediti, commissionati sul tema del viaggio e del bagaglio, del rapporto con la casa e le sue tradizioni, delle tracce che sta lasciando la “generazione Erasmus” che ci rappresenta. Una mostra interessante, che anche in questo caso racconta una storia non ancora assorbita dalla tradizione industriale del nostro paese, con risultati unici, a tratti vicini all’arte. E che si è fatta con mezzi sostenibili. Ma in questo caso c’era il patrocinio della nuova capitale europea del design di ricerca. Milano? No. Roma? No. E neanche Londra. Eindhoven.

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