Arriva il Papa nel cuore dell’inferno. Nella Calabria del coraggio e dell’ignavia, dove la Chiesa si mostra con due facce: quella oscura e ambigua della collusione mafiosa e quella aperta e sorridente della carità e dell’impegno quotidiano, faticoso e rischioso contro la ‘ndrangheta. Papa Francesco non ha scelto Reggio con la sua Cattedrale, né le Chiese maestose di altri centri della regione, ma Cassano allo Ionio, la diocesi più piccola del territorio, 47 parrocchie e 60 sacerdoti. Ha scelto di affondare le mani nel terrore e nella bestialità che qui si manifestarono la mattina del 20 gennaio. Una Fiat Punto bruciata e tre corpi carbonizzati, un uomo, la sua donna e Cocò, un bambino di tre anni. Vittima innocente di un regolamento di conti, di una faida, di una lotta di potere per il controllo del territorio. Cocò sarà il simbolo, il punto dal quale il Papa “raccoglitore di lacrime”, come lo definisce il gesuita Giovanni Ladiana, vuole ripartire insieme alla Chiesa calabrese.

Una rivoluzione in una terra dove la ‘ndrangheta, fin dalle sue origini, ha puntato tutto sulla simbologia religiosa per costruire il suo potere. Scelsero la cattedrale di Reggio Calabria le donne dei boss che si erano combattuti nelle guerre di mafia a colpi di bazooka e avevano lasciato a terra 600 morti per lanciare messaggi di pace. Era il 21 giugno del 1987, la cattedrale era zeppa di fedeli muti, Rosa Errigo, la vedova di don Paolino De Stefano, il re della ‘ndrangheta calabrese, si appellò alla pacificazione dall’altare maggiore. “Per le famiglie provate dall’odio e dalle ingiustizia, preghiamo”. Anche monsignor Aurelio Sorrentino pregò davanti alle mogli dei Condello, dei Rosmini, dei Ficara, nessuno pronunciò mai la parola ‘ndrangheta.

Tutti parlarono solo di odio. La Gazzetta del Sud ci aprì il giornale: “Vedove, orfani, genitori vittime dell’odio fratricida dicono: basta con la violenza, mai più si sparga altro sangue”. E pace fu. Ma le inchieste di decenni dopo, si sono incaricate di dimostrare che i boss decisero di mettere fine alla guerra per il solo dio che la ‘ndrangheta rispetta: il denaro, gli affari, il potere. Storie del passato? Non proprio, perché di preti “in odore” , e non certo di santità, sono piene le cronache dei mesi passati. È stato durissimo il pm Stefano Musolino nel chiedere la condanna a 3 anni e 6 mesi per don Nuccio Cannizzaro, parroco di Condera e cerimoniere del vescovo. Don Cannizzaro, ha detto nella sua requisitoria, “è esponente di un sistema di potere che in virtù di relazioni che ha con politici, forze dell’ordine e uomini delle istituzioni come magistrati, interviene a tutela di quel sistema di potere mafioso imposto dal boss Santo Crucitti”. Il prete è accusato di falsa testimonianza e di una eccessiva vicinanza alla cosca che domina in questa parte di Reggio. “Stiamo avendo problemi – dice in una telefonata intercettata –, ma non con la ‘ndrangheta , con la magistratura, loro non possono imporci il loro stile, io il mafioso lo devo avvicinare”. Don Salvatore Santaguida era il parroco di Stefanoconi, anni fa strappò la processione dell’Affruntata ai boss, un pentito lo indica come vicino alla cosca dei Patania, i magistrati lo accusano di aver fornito informazioni delicate ai boss. La ‘ndrangheta fu ribattezzata Santa e i capibastone si sentirono i sacerdoti di una nuova chiesa. “Poche chiacchiere , chiunque favorisce il potere della ‘ndrangheta è fuori dalla comunità ecclesiastica”.

Don Giovanni Ladiana, ex muratore, ex bracciante agricolo, gesuita, ha trasformato le stanze della sua parrocchia in ambulatori medici dove si assiste gratuitamente chi non ha nulla. “Ai preti collusi pongounadomandanetta:in quale Gesù credete?”. Don Giacomo Panizza, bresciano con un passato da operaio nelle acciaierie, crede nel Cristo della carità, per questo i boss di Lamezia Terme non gli danno tregua. Nelle case confiscate alla “famiglia” Torcasio ha organizzato centri di assistenza per portatori di handicap con Progetto Sud.

Hanno sparato alla sua porta, gli hanno messo bombe, hanno danneggiato le auto della sua associazione. “I boss non hanno gradito l’utilizzo delle case confiscate, ma non è un problema di soldi, diciamo che non volevano perdere la faccia con gente debole che sta in carrozzina, che ha bisogno di tutto e che ora sta lì. La ‘ndrangheta ci toglie la libertà. I primi cristiani sono stati uccisi perché si rifiutavano di dire che Cesare era Dio, oggi si tratta di ripetere questo rifiuto in modo moderno, costruendo anche qui in Calabria la libertà dalla mafia”. “A quanti scelgono di appartenere a una organizzazione criminale – scrivono il magistrato Nicola Gratteri e lo studioso Antonio Nicaso nel loro libro Acqua santissima – bisogna dire che la mafia, la ‘ndrangheta, la camorra, rappresentano un’altra religione, un’altra fede, incompatibile col popolo di Dio”. È d’accordo don Pino De Masi, prete a Polistena, Piana di Gioia Tauro: “La visita del Papa deve servire alla Chiesa calabrese per mettersi in discussione. Questa è una terra saccheggiata da mafia e corruzione. Noi dobbiamo dire con chiarezza che tra Vangelo e ‘ndrangheta non può esserci nessuna compatibilità”.

Da Il Fatto Quotidiano del 20 giugno 2014

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