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Giustizia: storie di ordinaria contro-digitalizzazione

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Avete mai pagato quasi 307 euro per un compact disc? Se dovesse capitarvi di essere citati in giudizio da qualcuno e di aver bisogno di estrarre una copia su cd dei documenti da questi depositati a supporto delle proprie ragioni, a partire dallo scorso 18 aprile potrebbe capitarvi.

È stato, infatti, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica il decreto – a firma del capo del dipartimento per gli affari di Giustizia del Ministero della Giustizia e del ragioniere generale dello Stato – relativo agli adeguamenti “degli importi del diritto di copia e di certificato” ovvero dei balzelli che ogni cittadino deve pagare quando si ritrova nella necessità di richiedere copia degli atti e dei documenti depositati in un qualsiasi giudizio.

Il decreto che, ad onor del vero, non fa che aggiornare secondo gli indici Istat le tariffe già previste dalla disciplina vigente offre una tragicomica rappresentazione dell’anacronismo dilagante nel pianeta giustizia che – a dispetto di quanto talvolta si sente dire in giro – è, evidentemente, anni luce lontano da ogni piccola o grande rivoluzione digitale.

A parte la follia di pretendere diritti copia pari a oltre trecento euro per la riproduzione su un cd di qualche manciata di bit, la tabella allegata al decreto sembra più simile ad un libro di storia dell’informatica che non ad un tariffario vigente. Basterà dire che la colonna relativa ai supporti “diversi da quello cartaceo”, inizia con una serie di voci dedicate alle “cassette fonografiche” e “videofonografiche” di diversa durata che rappresentano, probabilmente, supporti estinti persino negli archivi impolverati dei nostri Tribunali.

Si tratta di supporti appartenenti al paleolitico dell’informatica ed ormai tanto introvabili che se provate a lanciare una ricerca su google utilizzando come stringa “cassetta fonografica” o “cassetta videofonografica”, tutti i risultati, almeno nelle prime due o tre pagine, si riferiscono inesorabilmente a pagine relative alle “spese di giustizia”.

Sono, in altre parole, espressioni ormai utilizzate, pressoché esclusivamente, nel decreto in questione e nei suoi antenati.

Il fatto che in un decreto datato 10 aprile 2014, si continuino ad aggiornare le tariffe dei diritti di copia relative a supporti ormai estinti – per i quali, per inciso, si prevedono importi compresi tra i 3,68 euro ed i 9,21 euro – la dice lunga sullo stato di drammatico analfabetismo digitale dilagante nel pianeta giustizia. Ma non basta.

Gli appassionati dei libri di storia dell’informatica, infatti, troveranno stimolante anche il riferimento, contenuto nella penultima riga della tabella relativa alle “nuove” tariffe dei diritti copia ai “dischetti informatici da 1,44 MB”, straordinari oggetti del passato, oggi sostanzialmente introvabili – salvo, forse, in qualche cantina – e certamente non più leggibili con i pc in commercio.

Eppure il nuovo tariffario prevede che chiedere una copia – non ha importanza di quanti bit – su un “dischetto informatico da 1,44 MB – costi 4,31 euro.

Ovviamente il decreto non spiega come e dove il cancelliere o, come più spesso accade, rendendo ipocrita l’esazione di un “diritto di copia”, direttamente l’avvocato possano fare una copia su uno di questi straordinari oggetti da museo dell’informatica.

Certo, davanti agli enormi problemi della digitalizzazione del Paese ed al grave ritardo nell’attuazione dell’agenda digitale, stiamo parlando di quisquilie, ma, forse, la rivoluzione digitale dovrebbe e potrebbe cominciare proprio da queste piccole cose.

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