Dopo quelle di Putin, Papa Francesco, Snowden, Assange, Malala Yousafzai e chissà quante altre (pare siano quasi 300, ad oggi) il Comitato per il Nobel della Pace ha ricevuto una candidatura senza precedenti. Quella del popolo giapponese. Avete capito bene: l’intero popolo giapponese. Per via della sua Costituzione pacifista: certamente tra le più belle (e ahimè inapplicate) al mondo e, dopo 70 anni, a rischio di soccombere sotto le zelo neonazionalista di Shinzo Abe e del suo governo.

“La mia intenzione era di candidare la nostra Costituzione – ci ha spiegato al telefono Naomi Takusu, una casalinga di 37 anni che già l’anno scorso ci aveva provato, ma si era dovuta fermare per problemi tecnici – una Costituzione bellissima, che non ha eguali al mondo, e che all’articolo 9 rinuncia non solo alla guerra, ma allo stesso diritto di belligeranza e al possesso di esercito, marina e aviazione militare. Una Costituzione che nonostante non sia stata scritta dal popolo giapponese (furono gli americani, che avevano occupato il paese dopo la guerra, a redigerla e farla approvare dal parlamento giapponese, ndr) è stata rispettata e amata da tutti noi. Ma visto che l’anno scorso la candidatura non era stata accettata, quest’anno abbiamo fatto le cose perbene. E pare ci siamo riusciti”.

Il Comitato dei Nobel si sa, non commenta sulle candidature che riceve. Ma fonti bene informate confermano che la domanda, così come è stata presentata, è formalmente impeccabile e dunque verrà valutata come tutte le altre. “L’idea ci è venuta l’anno scorso – spiega la signora Takusu – quando il premier Abe ha confermato ufficialmente di voler procedere alla revisione costituzionale. Assieme ad un gruppo di amici, soprattutto donne, abbiamo raccolto 1500 firme e le abbiamo spedite al Comitato del Nobel. Così, direttamente, all’indirizzo che compare su internet”.

Il Comitato risponde dopo poche settimane: grazie dell’iniziativa, ma la proposta non è ricevibile. Le candidature debbono essere presentate attraverso canali e regole precise. Sopratutto, il candidato non può essere un oggetto, un’opera. Devono essere individui, gruppi di individui, enti o associazioni. Servono anche le “raccomandazioni”. Una candidatura non può essere presentata da chiunque: deve avere un certo “peso”. Funzionari governativi, associazioni, docenti universitari, ex vincitori del premio stesso. La signora Taskusu prende nota e si da subito da fare. Oltre a 50mila firme, nel giro di un anno ha raccoglie ben 43 raccomandazioni “eccellenti”, in patria e all’estero (pare ci siano anche 5 Premi Nobel). E anzichè l’ “oggetto” Costituzione, decide di candidare il suo legittimo proprietario: il popolo giapponese. E’ la prima volta che viene candidato al Nobel un intero paese (meglio, il suo popolo) anche se in precedenza è stata candidata, ed si è aggiudicata l’ambito premio, l’Unione Europea.

Nulla da eccepire, dunque, dal punto di vista formale. E nemmeno, aggiungo di mio, dal punto di vista sostanziale. E’ ora che il “popolo” giapponese, come tutti gli altri del resto, non venga identificato con il suo governo, sia esso passato, presente o futuro. Un’equazione che noi italiani considereremmo insopportabile e che anche i giapponesi subiscono, loro malgrado, da sempre. E se è vero che in passato pochi ebbero il coraggio di ribellarsi ai governi militari, oggi sarebbe davvero un errore identificare tutti i giapponesi con i deliri e le provocazioni neonazionaliste di Abe, dei suoi ministri e dei suoi – temporanei – intellettuali “organici”. Premiare il popolo giapponese per aver aver amato e rispettato la “sua” Costituzione, ancorchè “aliena”, facendone una sorta di “tesoro” nazionale e bloccando, di fatto, ogni tentativo (e non sono stati pochi) di modificarla sarebbe il modo migliore non solo di bloccare le iniziative di Abe (potrebbe mai un premier cambiare una Costituzione premiata dal Nobel?) ma anche per inviare un forte messaggio al popolo giapponese, sempre più in balia della propaganda nazionale, cui certa stampa non è estranea, che lo vuole – ci risiamo – vittima dell’arroganza e dell’egoismo dell’Occidente e della “minaccia” cinese.

Sappiamo, nel recente passato, a cosa abbia portato questo vittimismo nazionaldiretto. E non solo in Giappone. Come dice il Dalai Lama, lo ha ripetuto proprio qui in Giappone nei giorni scorsi, dove è venuto per una serie di conferenze, è davvero ora di finirla con Est e Ovest (“anche perché non sapremmo dove mettere l’Africa”, ha spiritosamente spiegato), opposti e inconciliabili, l’un contro l’altro armati, quanto meno culturalmente. Non ci sono paesi, popoli e tanto meno emisferi “cattivi” o “sbagliati”. Ci sono, invece, governi buoni e meno buoni. Alcuni pessimi. Dal punto di vista economico, Abe e la sua Abenomics debbono ancora dimostrare di saper risollevare il paese. Dal punto di vista sociale e soprattutto politico, invece, il governo Abe ha già fatto abbastanza per alzare la tensione in Estremo Oriente a livelli mai visti dal dopoguerra. Lo ha fatto notare lui stesso qualche mese fa a Davos, sostenendo che la situazione, in Estremo Oriente, è molto simile a quella che c’era in Europa prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Verissimo. Peccato che il maggiore responsabile di questa tensione sia proprio lui, con le sue ripetute provocazioni verbali, le sue visite al tempio Yasukuni e la pretesa di negare le nefandezze compiute dal Giappone (come tanti altri paesi, per carità) durante la guerra.

Ma Abe, anche se uscito vincitore alle ultime elezioni (dove peraltro hanno votato poco più della metà dei giapponesi, un terzo dei quali ha a sua volta votato per Abe ed il suo partito) non rappresenta 120 milioni di giapponesi. Forse esagero, forse pecco di ottimismo: ma sono convinto che la stragrande maggioranza dei giapponesi, oggi, si senta più rappresentata dall’umile, onesta e cocciuta signora Naomi Tsunoi che da qualsiasi altro politico in attività. I giapponesi si sa, sono un popolo testardo. Nel bene e nel male.

A suo tempo c’è stato chi è restato per trent’anni nella giungla, pensando che la guerra non fosse finita. Oggi c’è ancora un signore, con il suo orto di rape, pomodori e patate che blocca lo sviluppo dell’aereoporto internazionale di Narita. Quando atterrate con l’Alitalia a Tokyo, a metà circa dell’interminabile avvicinamento al “finger”, guardate sulla destra: vedrete delle bandiere rosse strappate dale intemperie e uno striscione scolorito che emerge da fitte, barriere di filo spinato stile anni ’70: “No all’aereoporto”. E’ lì da quarant’anni. Nessuno lo tocca. E nessuno può toccare Shunji Shimamura, il contadino più cocciuto del pianeta. A suo tempo il governo giapponese promise di non espropriare con la forza nessun terreno. E ha mantenuto la promessa, “convincendo” i contadini più riottosi, appoggiati dagli epigoni del movimento studentesco, pian piano, con offerte sempre più alte di denaro. Ma Shimamura non ha ceduto, e con un altro collega, Shohei Horikoshi, all’altra estremità dell’aereoporto, tiene in scacco da quarant’anni l’Impero. Per “colpa” loro, il principale hub internazionale del Giappone ha una sola pista vera e propria e nonostante tutte le promesse e l’impegno profuso dalle autorità non sono riusciti a a sbarazzarsi di questi due testardi in tempo per i mondiali del 2002 e non ci riusciranno, molto probabilmente, nemmeno per le Olimpiadi del 2020.

Le donne giapponesi, poi, sono ancora più toste. Quando ci si mettono, non mollano la loro battaglia per nulla al mondo. Tempo fa conobbi e intervistai una signora che aveva fatto causa al governo per “furto d’anima”. Proprio così: suo marito, che lavorava per l’esercito, era morto in un incidente d’auto. Ma era in servizio, e dopo essere stato cremato, il suo tamashi (spirito) era stato “trasportato”, con una cerimonia che tuttora si celebra in decine di templi giapponesi particolari ( i cosiddetti gogoku-jinja: templi per la protezione del paese”), chiamata iresai : una sorta di mini-apoteosi. Lo “spirito” del deceduto si trasforma in divinità e va ad appollaiarsi su un albero del tempio, dal quale “protegge” i suoi cari e l’intera nazione. La signora Nakaya la sua battaglia, ovviamente, la perse. Ma arrivò fino alal Corte Suprema. Speriamo che Naomi Takusu, invece, passi alla storia per aver vinto la sua: l’aver proposto il Nobel per la Pace al Giappone. Pardòn, al suo popolo.

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