Gli storici istantanei e gli antropologi delle relazioni sociali su Internet sono già al lavoro su fenomeni recentissimi – parliamo di sistemi trionfanti giusto sette, otto anni fa -, che hanno di fatto introdotto l’era dei social network, ma che sono adesso quasi completamente usciti di scena, vampirizzati e bypassati da Facebook, Twitter e simili.

Vi ricordate, per esempio, delle prime chat di Internet, per la precisione dei canali Irc, o Icq? Forse no, se siete nati in mezzo agli anni novanta. Erano strane bestie queste aree di chiacchiera varia digitale solo testo, a pochissimi bit. Si rischiava facilmente la dipendenza, o lo psicodramma; e spesso ci si innamorava di fantasmi. Salvo poi disinnamorarsi al primo appuntamento al buio, le descrizioni fisiche raramente coincidevano. Prima dei social network, prima di Skype, fino a poco meno di dieci anni fa, c’erano solo i canali chat Irc e Icq, spogli, basici, scheletrici. Erano tutti o quasi connessi lì. A dialogare tra di loro fantasticando, visto che non si sapeva nulla che non fosse mera parola e verbo, dell’altro: nessuna foto, figurarsi vedersi in webcam, con la lentezza delle connessioni di allora. L’immaginazione, l’astrazione, la narrazione possedevano ancora un loro peso specifico, un loro spazio “fisico”. In chat si comunicava prevalentemente a tu-per-tu, in query (finestre di conversazione privata), non per snocciolare prepotentemente a tutti la propria irresistibile Weltanschauung. Anche perché erano tutti delle semplici e democratiche righe di testo.

In chat si era, indifferentemente, “Joyce”, “Moana”, “Pelù”, “Sveva” “Hegel”. L’elenco di questi nomignoli di fantasia, i nickname, era oceanico: ci si nutriva per lo più di rimasticature scolastiche e di detriti sottoculturali d.o.t.i. (d’origine televisiva incontrollata). E non c’erano stati febbrilmente da aggiornare, o tweet da ritwittare, o bacheche da presidiare militarmente, privacy da riconfigurare senza posa, mipiace da guadagnare con iniezioni di demagogia, tag da implementare, notifiche altrui da monitorare, eventi da rifiutare, commenti velenosi a valanga a un tuo post pubblicato così, a cuor leggero, da rintuzzare…

Subito dopo venne Myspace. Probabilmente i ragazzi d’oggi, cresciuti a pane e app, nemmeno sanno che immediatamente prima di Facebook e di Twitter contava solo Myspace. Almeno fino al 2008, questa piattaforma di social networking fondata dieci anni prima è stata il top. Forse perché offriva ai suoi milioni di utenti disseminati nel mondo la possibilità di pubblicare gratuitamente una pagina web altamente ipertestuale dove poter sgranare il proprio rosario di scintillanti, o tetri, gusti e bozzetti artistici personali. Tra le sue mura virtuali si sentivano tutti potenziali artisti: potevi, anzi, dovevi sbizzarrirti a plasmare il tuo layout, l’abito grafico della tua pagina, del tuospazio, imparando giocoforza i rudimenti della grafica digitale, del linguaggio html, e non era facile. Motivi floreali rivisitati a go-go, über alles. Anche se il proprietario di Myspace era il tycoon mediatico Murdoch, mica un hippie folgorato sulla via dei kibbutz o un arancione metropolitano devoto a Osho.

Su Myspace ricorrevano spesso gli stessi tipi umani: 1) L’Allegrone. Era il trionfo della gioia di vivere. Rosso appassito su sfondo nero morte. Foto personali scattate in rifugi primordiali. I suoi interessi principali erano “Cercare me stesso nei bui spaventosi… dipingere il mio paradiso… piangere col cuore… andare al di là (o nell’aldilà)”; 2) La ragazza MySpace. Un’irrefrenabile aggiungitrice di contatti e commenti. In genere era uno spirito libero, e il suo space era popolato da centinaia di foto con vedute aeree di se stessa, scattate da droni amici e poi rielaborate dai migliori alchimisti tecnologici della Pixar; 3) La Dea narcisistico-compulsiva. Per aprire la sua pagina occorrevano dai tre ai cinque giorni, oberata com’era di slide fotografiche che la ritraevano in pose fashion, glamour, fetish, gothic, vintage, pin-up, burlesque, casual; 4) Il sultano virtuale. La sua top-friends su Myspace era un harem. Bionde rosse brune. Lui, nel dubbio, le venerava tutte. Loro, nel dubbio, ne erano felicissime.

E poi venne Facebook.

Beato il popolo che non ha bisogno di continui log-in. 

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