Una domanda a Saul Newman*: nel tuo libro «Fantasie rivoluzionarie e zone autonome» sei molto categorico quando sostieni «ogni progetto rivoluzionario che intende istituire una nuova società deve essere visto, in ultima analisi, come un’illusione utopica». Con questa affermazione chiudi, sostanzialmente un’epoca. Quella che ha visto nella rivoluzione, in questo caso libertaria, un momento fondamentale per il passaggio dalla società del dominio a quella fra liberi ed eguali.  Allora è proprio morto il concetto e l’idea di rivoluzione?

Sì, la storia classica dell’emancipazione rivoluzionaria è finita, naufragata sulle coste dello stato. La rivoluzione cerca di imporre ciò che in ultima analisi è una certa idea di libertà, il che significa imporre un nuovo sistema di potere. Le rivoluzioni sono guidate da avanguardie e partiti, e ciò ha portato, storicamente, alla distruzione delle forze stesse della rivoluzione: la rivoluzione che divora i propri figli.

Le rivoluzioni comportano una radicale trasformazione del complesso dei rapporti sociali, ma questo implica un approccio totalizzante alla società e produce nuove forme di controllo sociale. Esse sono un cambio della guardia, e pongono sempre il problema di chi subentrerà, dopo. Al posto della rivoluzione, io propongo l’idea dell’insurrezione, che non è la semplice usurpazione del potere, quanto la trasformazione micropolitica dei nostri rapporti con esso. Come dice Max Stirner in L’unico e la sua proprietà, significa «operare davanti a me fuori dallo stabilito». È un’insurrezione contro la nostra stessa soggettività precostituita, oltre che contro il potere che ci opprime. Ci chiede di interrogarci, sul piano etico e politico, circa il nostro desiderio di potere e autorità, che si è dimostrato disastroso per tutti i progetti rivoluzionari del passato. L’insurrezione opera su molteplici fronti e con varia intensità, diffondendosi orizzontalmente e rizomaticamente come un virus, piuttosto che concentrarsi su di un singolo aspetto o dirigersi contro uno specifico centro di potere, perché ormai non esiste più un unico centro di potere o di resistenza. L’insurrezione non è diretta a un’emancipazione futura, ci chiede invece di vivere, qui e ora, come se fossimo già liberi. La libertà non è il fine dell’insurrezione, ne è la premessa, il punto di partenza, il substrato ontologico. L’insurrezione mira all’autonomizzazione dell’esistenza.

Così Newman sintetizza il concetto di insurrezione contrapposto a quello di rivoluzione.

*Newman, insegna teoria politica alla Goldsmits University di Londra, autore di diversi saggi (From Bakunin to Lacan, 2001; Politics Most Unusual, 2008; The Politics of Postanarchism, 2010; Max Stirner, 2011; Derrida e la decostruzione dell’autorità nell’antologia curata da Salvo Vaccaro Pensare altrimenti, Eleuthera, 2011). L’analisi di Newman spazia «dalla nascita del movimento globale della fine degli anni Novanta, fino ai recenti movimenti di occupazione apparsi in tutto il mondo» e così può approdare all’idea di insurrezione piuttosto che rivoluzione. Con una notazione controcorrente rispetto alla logica dominante: «come dice una vecchia massima: l’anarchia è ordine, lo Stato è disordine». Insomma un libro che si legge tutto d’un fiato: ottanta pagine colme di idee stimolanti e controcorrente.

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