Il Financial Times stronca il piano industriale annunciato da Unicredit insieme alla maxi perdita di 14 miliardi per il 2013. “E’ molto bello, se si può fare”, scrive il quotidiano della City, spiegando che “raggiungere questi target richiede che molte cose vadano bene”. In primo luogo, “l’Italia deve centrare la svolta economica che la banca si aspetta: il +0,1% di Pil dell’ultimo trimestre deve essere l’inizio di qualcosa di più grande”.

L’Ft prende poi le misure e suggerisce cautela per il piano strategico presentato “proprio mentre l’Italia ha annunciato la fine di quasi tre anni di recessione”. Più ottimista il Wall Street Journal, secondo il quale “fare pulizia dopo una notte brava può essere doloroso, ma Unicredit sta offrendo agli investitori un invito al party che deve ancora arrivare“. Il quotidiano finanziario del gruppo Murdoch addebita il risultato principalmente ai 7,2 miliardi di accantonamenti aggiuntivi a fronte di perdite su crediti, che servivano all’istituto per affrontare l’asset quality review, cioè la prima fase degli esami comunitari, quelli sulla qualità del patrimonio degli istituti. I bad loan (letteralmente “cattivi prestiti”), tuttavia, “non hanno intaccato più di tanto il capitale della banca“, che stima “di raggiungere un core tier 1 del 10% entro il 2016”.

Il Financial Times, invece, pone l’accento sulle perdite, affermando che Unicredit “ci invita a guardare questa sgradevolezza come al passato per considerare i tempi felici che arriveranno con il suo piano strategico 2013-2018″, dove l’istituto prevede un utile netto di 2 miliardi nel 2014 che diventerà di 6,6 miliardi nel 2018, con un ritorno sui mezzi propri tangibili (Rote) del 13% e “ricavi della gestione che cresceranno del 5% all’anno da qui al 2018”.

Al di là della crescita prevista in Italia, il quotidiano inglese fa notare che, oltretutto, la stessa banca deve portare avanti un piano che valuta la vendita di Unicredit Credit Management Bank, mette sul mercato Fineco e, in generale, prevede la gestione separata in una “non-core division” di 87 miliardi di crediti lordi non core, tra sofferenze e altre esposizioni. E, prosegue, Unicredit “pianifica di fare tutto questo con un capitale che non è altrettanto consistente quanto quello dei suoi rivali: il Common Equity Tier 1 ratio è al 9,4% (già considerati gli effetti di Basilea 3) e, se l’obiettivo è quello di raggiungere il 10% entro il 2016, molte grandi banche europee ci sono già arrivate. Considerato tutto questo – conclude l’Ft – la promessa finale di un pay out medio del 40% sembra prematura”.

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