La domanda di partenza potrebbe essere: il “Monuments Man” George Clooney (lui, proprio lui) spenderebbe una parola a favore della restituzione all’Italia dell’Atleta di Fano da parte del Getty Museum di Malibù? La risposta comunque dovrebbe essere celere perché sulla controversia legale che dura ormai da decenni si aspetta una parola definitiva nientemeno che dalla Corte di Cassazione. Il prossimo 25 febbraio, infatti, i massimi giudici risponderanno a una richiesta dello stesso museo californiano non intenzionato ad ottemperare alla sentenza del gip Lorena Mussoni (tribunale di Pesaro) che nel 2009 aveva dichiarato “patrimonio indisponibile dello stato” l’opera oggetto di una odissea cominciata nel 1964 e non ancora conclusa. La pronuncia di Mussoni era stata fra l’altro già confermata dal suo collega Maurizio Di Palma, nel maggio 2012.

Era la piena estate del 1964 quando l’equipaggio del peschereccio “Ferruccio Ferri” issò a bordo, impigliata nelle reti, una statua di metallo ricoperta di incrostazioni e conchiglie a cui mancavano entrambi i piedi. Il punto esatto del rinvenimento non fu mai accertato con precisione, poiché il comandante del peschereccio sostenne trattarsi di acque internazionali, mentre gli altri marinai non si sono pronunciati. 

La statua fu sbarcata a Fano e dapprima nascosta nel sottoscala degli armatori poi sotterrata in un campo di cavoli. Comportamento, a nostro modesto parere, che lascia intendere la precisa consapevolezza non solo del valore dell’oggetto, ma anche della illegalità delle azioni che si stavano per intraprendere: se il tuo comportamento è in regola, una statua la esponi, non metti sotto i cavoli. Le norme a tutela dei beni artistici e archeologici, infatti, erano già in vigore e la legge n.1089 del 1939 stabiliva che qualsiasi oggetto scavato o transitato sul territorio italiano era da considerarsi proprietà dello stato.

Quello che sarà poi ribattezzato “Atleta” e da alcuni attribuito al grande scultore greco Lisippo (ma l’attribuzione è basata su puri canoni stilistici), doveva perciò essere denunciato alle autorità e consegnato.

Invece, fu avviato a una lunga peripezia proprietaria. Secondo qualcuno finì in Brasile, secondo altri in Svizzera e poi in Germania quando nel 1977 il Getty alla fine lo acquistò per 3,9 milioni di dollari da un antiquario di Monaco. Era stato venduto per 3,5 milioni di lire. Va detto che l’opera, nel frattempo ripulita, restaurata e godibile in tutta la sua perfetta bellezza, era stata esaminata e poi rifiutata sia dal curatore del Metropolitan di New York, sia dallo stesso Paul Getty (e infatti fu comprata dopo la sua morte). Entrambi, pare, dubbiosi sulla liceità della sua provenienza.

Gli aspetti legali della vicenda vedono da un lato l’incertezza del diritto italiano, che processa quattro volte i commercianti con cui l’Atleta prese la strada del mercato internazionale, condannandoli e assolvendoli ripetutamente (una vergogna, diciamolo), e dall’altra la tenacia di alcune associazioni, tra cui la marchigiana “Le Cento Città” che nel 2007 presentò un esposto alla procura di Pesaro da cui prese il via il processo che la prossima settima approda in Cassazione. A nulla, infatti, valsero le azioni diplomatiche e politiche intraprese dai ministri dei beni culturali Buttiglione e Rutelli. Le pressioni hanno convinto il Getty a restituire quasi tutte le opere di cui era stata dimostrata l’acquisizione illecita (prima fra tutte la Venere di Morgantina), ma non l’Atleta.

Ora appunto resta il quesito da porre a Clooney e a tutti coloro che sostengono, giustamente, che le opere d’arte vanno restituite ai legittimi proprietari. Pur essendo riemerso dalle acque, internazionali o meno, l’Atleta doveva essere denunciato e consegnato ai tutori dei beni culturali italiani.

E certo non contrabbandato oltreconfine. Come purtroppo troppo spesso, ancora oggi, succede.

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