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Quel grande lavoratore dell’Elkann

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Ho avuto l’onore di scambiare qualche parola con John Elkann, in visita al giornale dove lavoravo, La Stampa. Mi rimasero impressi soprattutto i suoi capelli, schiacciati sulla nuca come accade a chi si sia appena alzato. Erano le cinque di pomeriggio. Del discorso che tenne alla redazione non ricordo molto, se non la strenua battaglia – ahimè perduta – con i congiuntivi. Oggi è facile prendersela con lui per quella frase apparentemente infelice: “Molti giovani non colgono le tante possibilità di lavoro che ci sono o perché stanno bene a casa o perché non hanno ambizione”.

Troppo facile fare dell’ironia, come sparare sulla Croce Rossa.

Ma forse siamo noi che non abbiamo capito l’estremo e delicato atto di sensibilità di un giovane incompreso: nel giorno in cui la Fiat lascia l’Italia, il lavoratore Elkann cerca di renderci meno penoso il distacco e di lenire la nostra pena. Si sacrifica pur di farci pensare: per fortuna li abbiamo rifilati all’America.

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