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Di Matteo, la macchina del fango non perde colpi

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Tanto per cambiare è entrata in funzione la macchina del fango mediatica: obiettivo Nino Di Matteo, il parafulmine dell’accusa al processo sulla trattativa tra Stato e mafia, dove sono coinvolti politici, istituzioni, mafiosi: autori i soliti noti. Facci, che tutte le volte che sente odore di Berlusconi, da buon cane da guardia, si scatena. Ha scritto su Libero un trattato per dire che Di Matteo “si è inventato di essere stato condannato a morte da Riina” e, dando credito più al mafioso che al magistrato, tenta di dimostrarlo interpretando le stesse parole di Riina sulla trattativa: “Ma non c’è… chi c’è andato a trattare?”.
 
Vittorio Sgarbi (innegabile la sua esperienza in materia, gli fu commissariato il Comune di Salemi per mafia mentre lui era sindaco), va giù ancora più duro. Nel suo delirio scrive: “Riina non è, se non nelle intenzioni, nemico di Di Matteo. Nei fatti è suo complice“. In sostanza Sgarbi accusa il magistrato siciliano di alimentare la leggenda Riina che dal ’93 è in carcere al 41 bis. Un po’ come Falcone quando fu accusato dell’auto attentato dell’Addaura. Ferrara mette a confronto Berlusconi “da calunniare” e Di Matteo “con il suo traballante processo, da santificare”, addirittura chiede un’inchiesta parlamentare “urgente e blindata”. Anche per il direttore del Foglio Riina è in pensione da ventun’anni, “messo in galera dagli uomini che i processi e le inquisizioni di Ingroia e Di Matteo hanno cercato per anni di incastrare”. Infine Mulè che a Servizio Pubblico ha messo in discussione la professionalità di Di Matteo, usando il finto pentito Scarantino (in studio), quello che si inventò, perché costretto, i nomi dei responsabili della strage di via D’Amelio, poi smentito da Spatuzza.

Il direttore di Panorama, per rafforzare la sua tesi, cita Ilda Boccassini che, sin dal 1994, aveva definito Scarantino un “balordo”, poi aggiunge che Di Matteo era uno dei pm che avevano creduto a Scarantino e non alla Boccassini, evitando, furbescamente, di informare il telespettatore che Di Matteo, da pm, aveva seguito in parte il processo via D’Amelio-bis e tutto il ter. La “semplificazione giornalistica” induce a pensare che le sentenze di condanna di quei processi siano state tutte annullante, invece, alcune non sono mai state messe in discussione, come la partecipazione, in fase esecutiva, di Giuseppe Graviano e dei suoi “picciotti” Tinarello, Tagliavia e Cannella. Grazie anche a tutto questo, attorno ai magistrati di Palermo, aumenta il silenzio e la solitudine.

Il Fatto Quotidiano, 5 Febbraio 2014

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